Che l’avvenire del Libano non sia deciso a Tel Aviv o dall’Iran

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Michel Helou è segretario generale del Blocco Nazionale, partito storico del fronte del rinnovamento cristiano libanese, fondato dall’ex presidente della repubblica Emile Edde. L’articolo è stato pubblicato il 3 agosto 2024 da L’Orient Le Jour.

Nel giro di dodici ore, Israele ha compiuto due grandi attentati, traumatizzando i libanesi e cogliendo tutti di sorpresa. Certo, ci aspettavamo una risposta dopo la tragedia di Majdel Chams, dove un razzo, attribuito a Hezbollah da Israele e dagli Stati Uniti, ha ucciso dodici persone, soprattutto bambini. Ma non una risposta che riflettesse cinicamente la scelta dell’escalation.

Oltre alle 7 vittime e agli 80 feriti dell’attacco, l’impatto psicologico è enorme, riaprendo improvvisamente le cicatrici del 2006 tra gli abitanti di Haret Hreik. Scegliendo di colpire Beirut e poi Teheran, Israele invia un messaggio chiaro: non ci sono più linee rosse.

Uccidendo una figura discreta ma venerata dell’apparato militare di Hezbollah, Fouad Chokor, vuole dimostrare di sapere dove sono i suoi avversari e di poterli colpire dove vuole, quando vuole. Assassinando Ismaïl Haniyé, capo del ramo politico di Hamas incaricato dei negoziati, Benjamin Netanyahu dimostra da un lato di non volere un cessate il fuoco e dall’altro cerca di ottenere una vittoria da offrire all’opinione pubblica del suo Paese, in assenza di guadagni a Gaza nonostante la carneficina.

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Sia Hezbollah che l’Iran chiedono vendetta in un clima di shock ed emozione. L’ayatollah Khamenei ha già annunciato le rappresaglie e ora c’è solo una domanda sulla bocca di tutti: stiamo andando verso una guerra totale?

Siamo a un punto di svolta e la possibilità di un’esplosione regionale è reale. Il nostro unico obiettivo, come libanesi, deve essere quello di evitarla, a qualunque costo. Non c’è motivo per cui il Libano, messo in ginocchio da un collasso economico senza precedenti e dal cinismo mafioso della sua classe politica, debba essere trascinato ulteriormente in una guerra per la quale ha già pagato un prezzo altissimo da quando Hezbollah ha aperto il suo “fronte di sostegno” l’8 ottobre: più di 500 morti, tra cui un centinaio di civili, quasi 100.000 sfollati, una trentina di villaggi parzialmente distrutti, migliaia di ettari di terreni agricoli bruciati con il fosforo.

Nonostante ciò, molte voci cadono nella logica della legge della rappresaglia. È un atteggiamento irresponsabile e persino suicida. Chi invoca la vendetta contro Israele e chi, invece, spera di vedere la distruzione di Hezbollah da parte dello stato ebraico si illude. Se ci sarà una guerra totale, il Libano sarà distrutto in modo irreparabile.

Il sostegno alla causa palestinese è sia un dovere morale – siamo inorriditi dal massacro di 40.000 abitanti di Gaza, che si aggiunge a 76 anni di ingiustizia e di espropriazione – sia un imperativo politico, perché non possiamo raggiungere la pace regionale senza la creazione di un vero stato palestinese.

Ma quale contributo hanno dato a questa causa i razzi lanciati dalle milizie che operano sul nostro territorio? Come hanno rallentato il massacro in corso a Gaza? E se hanno colpito gli israeliani nel nord, non è nulla in confronto alle sofferenze e alla desolazione patite dai libanesi nel sud. È inaccettabile che qualcuno (Hezbollah, ndr) sia disposto a sacrificare il Libano sull’altare di una sedicente resistenza.

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Sembra anche difficile fidarsi di un partito (Hezbollah, ndr) che ha costantemente lavorato contro il suo stesso popolo per difendere i diritti del popolo palestinese, come dimostrano in particolare gli omicidi commessi in suo nome, la sua repressione della rivolta popolare dell’ottobre 2019 e la sua incessante campagna per far saltare le indagini sulla più devastante esplosione della nostra storia. Il suo interesse è rafforzare la posizione regionale del suo padrino – l’unico a cui deve rendere conto – per avere più peso nel grande scacchiere geopolitico.

Il pericolo gravissimo verso cui le politiche estremiste di Israele ci spingono da decenni è quello della radicalizzazione. Come possiamo non capirlo?

Raramente nella storia moderna siamo stati esposti in diretta a una tale scala di crimini sostenuti, anzi legittimati, dall’ordine internazionale. Il senso di indignazione per tale ingiustizia è del tutto giustificato.

Lo scollamento tra l’opinione pubblica mondiale e le scelte politiche delle principali potenze occidentali sta assumendo proporzioni sconcertanti. Tuttavia, dobbiamo mantenere il sangue freddo e lavorare per calmare la nostra rabbia, per trasformarla in forza vitale. Rifiutare le trappole suicide dell’odio.

Per quasi trent’anni i fondamentalisti hanno gradualmente preso il controllo della causa palestinese. Il risultato è stato a dir poco drammatico.

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Sappiamo tutti che la pace non è a portata di mano, ma sappiamo anche che non si otterrà con un gioco di prestigio verbale e militare. Né il fallimento dei negoziati di ieri né l’assenza di partner di oggi dovrebbero condannarci all’inevitabilità della violenza e della distruzione.

Le mie parole possono sembrare ingenue in un momento in cui la forza e la brutalità sembrano essere più che mai l’unico linguaggio; ma devono esserlo, perché la posta in gioco è niente meno che la sopravvivenza di una regione già insanguinata – una sopravvivenza che richiederà inevitabilmente la coesistenza dei popoli. Musulmani, cristiani ed ebrei sono tutti presenti in Oriente dalla notte dei tempi. Vi devono restare.

Come possiamo aiutare i palestinesi nella loro ricerca di giustizia? Per aiutare i palestinesi, dobbiamo innanzitutto voler aiutare noi stessi. Costruire uno stato degno di questo nome, in modo che il Libano sia ascoltato sulla scena internazionale come lo è stato in passato. Partecipare alla pressione internazionale che, anche se finora impotente, ha già fatto perdere a Israele la battaglia delle opinioni e, grazie soprattutto all’azione coraggiosa del Sudafrica, ha permesso di ricordare la necessità di un ritorno allo stato di diritto.

Si tratta anche di lavorare su noi stessi: che ne è del ricordo libanese-palestinese della guerra civile? Quali progressi sono stati fatti sui diritti dei rifugiati in Libano? Come possono la diaspora libanese e quella palestinese aiutarsi a vicenda per avere un impatto? Dobbiamo rispondere a tutte queste domande a lungo termine, ma di vitale importanza.

Per il momento, e per porre fine alla tragica spirale che stiamo vivendo, non possiamo certo contare sul ministro degli esteri uscente, Abdallah Bou Habib, che “chiede a Hezbollah di calibrare gentilmente la sua risposta”.

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Abbiamo bisogno di un presidente della Repubblica e di un governo completi, che inizino a difendere gli interessi dello stato libanese e a compiere un vero e proprio sforzo diplomatico per attuare le risoluzioni ONU, in particolare la 1701.

L’obiettivo non è solo quello di prevenire gli attacchi da entrambe le parti, ma anche di riportare lo stato nel suo complesso verso sud. Molto deve essere fatto per restituire un senso di sicurezza e dignità agli abitanti.

È essenziale rafforzare l’esercito, in modo che possa contribuire alla deterrenza – come fece dopo l’accordo di armistizio del 1949, quando la sua presenza e la statura dello stato libanese ci permisero di vivere in una relativa calma, senza milizie o interferenze straniere.

Dobbiamo trovare i mezzi per resistere all’aggressione israeliana, e l’unica resistenza è lo stato. Qualsiasi altro progetto guidato da dottrine religiose o da interessi stranieri porterà solo ad altra distruzione.

Se la decisione è principalmente nelle mani di Israele, Stati Uniti e Iran, anche noi libanesi abbiamo voce in capitolo, se non altro per preservare ciò che resta della nostra sovranità e dignità. Non lasciamo che il futuro del Libano sia deciso da Tel Aviv o dall’Iran.

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Un commento

  1. Riccardo 4 agosto 2024

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