Il 3 aprile scorso, una notizia ignorata dai media egemonici e pescata casualmente in un articolo dell’IHU, Istituto Humanitas, Brasile, mi lascia molto perplesso.
Il 2 aprile, anniversario della sconfitta del 1982, giorno dedicato alla memoria dei caduti e dei veterani della guerra delle Malvinas, in una Messa celebrata nella cattedrale di Buenos Aires, sede primaziale d’Argentina, l’arcivescovo Jorge Garcías Cuerva ha affermato, in una commossa e patriottica omelia, che la causa delle Malvinas unisce profondamente tutti gli argentini e che, a dispetto della vittoria britannica, l’arcipelago sarà e dovrà essere per sempre argentino.
Chiesa e politica
Era presente alla Messa Diana Elena Mondino, ministra degli esteri e del commercio internazionale del governo Javier Milei, che, nonostante alcune equivoche dichiarazioni durante la campagna elettorale dell’anno scorso, alla fine si è associata al coro nazionalista che rivendica la sovranità argentina sulle Malvinas.
Il papà dell’arcivescovo Jorge era militare e cugino di primo grado del pilota Gustavo García Cuerva, eroe nazionale caduto durante la guerra delle Malvinas. Il prelato è considerato da papa Francesco come «un pastore con l’odore delle pecore», un «prete di strada», un cura villero, solidale alleato dei poveri delle villas, periferie geografiche e esistenziali delle città argentine.
La stampa argentina ci fa sapere, inoltre, che l’arcivescovo è in buoni rapporti con l’ex ministro dell’Economia, Sergio Massa, peronista moderato, perché collaborarono, quando Massa era sindaco di Tigre, in progetti a favore dei poveri.
Ho aspettato qualche giorno, invano, per vedere se ci fossero reazioni critiche dell’ambiente pastorale e teologico argentino e latino-americano, e, deluso da questo silenzio, comincio a pensare che forse sono proprio io, latino-americano per adozione, che non capisco bene come funziona l’anima e il cuore di questi popoli.
Sfumature nazionaliste
Appartengo alla generazione che ha accettato l’interpretazione del conflitto delle Malvinas come un evento profondamente legato alla dittatura militare, al punto che la fine del terrore militare coincide con quella sconfitta e che, quindi, parlarne positivamente rivelerebbe inaccettabile complicità e appoggio alla dittatura.
Sembra, però, che l’appoggio popolare alla guerra non coincidesse con l’approvazione e l’assoluzione politica della Giunta Militare, ma fosse – e pare che questo sentimento nazionalista sia molto forte anche nell’attualità – quell’antico e giustificato rancore riservato alle potenze occidentali e al modello dello sfruttamento e dell’oppressione colonialista.
Questi sentimenti nazionalisti non sono necessariamente patrimonio tradizionale della destra, ma appartengono ai percorsi ideologici delle sinistre latino-americane, in cui – che ci piaccia o no – l’ingrediente nazionalista è sempre stato presente. Pensiamo ai vecchi e germinali populismi: all’Argentina di Peron o al Brasile di Vargas e a come lo slogan «il petrolio è nostro» ritorni, insieme alla rivendicazione nazionalista della proprietà statale della Compagnia Vale do Rio Doce (oggi semplicemente Vale) nelle proposte della sinistra brasiliana.
Insomma, devo convincermi che, per gli argentini, Malvinas è una causa – e direi un trauma – quasi bicentenario e un elemento fondamentale nella costruzione e affermazione dell’identità nazionale. E l’arcivescovo Jorge Garcías Cuerva è indiscutibilmente un argentino.
L’omelia del vescovo
In un passo dell’omelia egli ha affermato che «dobbiamo avere il coraggio di piangere, perché anche Gesù ha pianto… piangiamo perché sono fonte di dolore 649 soldati uccisi e più di mille feriti[1]; piangiamo perché ci fa male la guerra, la smemoratezza e l’uso ideologico della causa delle Malvinas… lamentiamo sconfitte e frustrazioni… e piangiamo anche di rabbia perché ci addolora il dolore della patria».
Continuando, l’arcivescovo ricorda che il papa, parlando ad un presidente europeo, nel 2020[2], disse che «è molto triste quando le ideologie si appropriano dell’interpretazione di una nazione… e sfigurano la patria»[3].
In un altro momento dell’omelia García Cuerva afferma che «tornare a fare memoria delle Malvinas è per noi fonte di speranza e di gioia, di orgoglio, eroismo e sovranità nazionale… dire Malvinas è dire identità nazionale, è dire patria, è dire storia, presente e futuro, è dire fraternità, perché la causa delle Malvinas ci unisce».
È bene ricordare, che, al di là dei commoventi simbolismi nazionalisti, le Malvinas continuano ad essere al centro del dibattito geopolitico per l’importanza economica che hanno assunto negli ultimi anni. Non sono solamente strategiche per la loro prossimità all’Antartide e per la pesca, ma sono riserve preziose di acqua dolce e soprattutto, nell’Atlantico circostante, di petrolio.
Pare che siano una minoranza quasi insignificante coloro che si oppongono a questo nazionalismo intollerante, cosa che procura loro non poca inimicizia in Argentina. Nome significativo è quello dello storico Luis Alberto Romero, che fa parte di un gruppo di intellettuali che contestano il patriottismo che si alimenta del trauma delle Malvinas. Romero sostiene la sua opposizione con argomenti storici, che dovrebbero essere valorizzati in un serio dibattito politico.
Ma ciò che infine mi stupisce e preoccupa davvero è la decisione della Chiesa cattolica di schierarsi a favore di questa comunione nazionalista. Limitato come sono, non riesco a concepire e accettare l’alleanza pastorale e teologica tra nazionalismi e Vangelo di Gesù di Nazareth.
[1] Il vescovo non menziona i 255 caduti inglesi.
[2] L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 248, 27/10/2020. “Due anni fa, forse lei signora Ambasciatore lo conosce, è stato pubblicato qui a Roma un libro di un intellettuale italiano del Partito Comunista. Ha un titolo molto suggestivo: Sindrome 1933. Lo conosce? Un libro con la copertina rossa. Molto bello. Vale la pena leggerlo. Si riferisce alla Germania, ovviamente. Caduta la repubblica di Weimar, iniziò un miscuglio di possibilità per uscire dalla crisi. E iniziò lì un’ideologia che faceva vedere che il cammino era il nazionalsocialismo, e continuò e continuò, e giunse a ciò che conosciamo: il dramma che fu per l’Europa quella patria inventata da un’ideologia. Perché le ideologie settarizzano, le ideologie decostruiscono la patria, non costruiscono. Imparare questo dalla storia. E quell’uomo nel libro fa con molta delicatezza un paragone con quanto sta accadendo in Europa. Dice: attenzione perché stiamo rifacendo un cammino simile. Vale la pena leggerlo. Con queste parole desidero semplicemente ricordare ai politici che la loro missione è una forma molto alta della carità e dell’amore. Non si tratta di manovre o di risolvere casi che ogni giorno arrivano sulla loro scrivania, ma di servizio su tre fronti: far crescere il paese, consolidare la nazione e costruire la patria. Ed è molto triste quando le ideologie s’impadroniscono dell’interpretazione di una nazione, di un paese e sfigurano la patria. Mi viene in mente in questo momento la poesia di Jorge Dragone: “La nostra patria è morta”. È il requiem più doloroso che abbia mai letto ed è di una bellezza straordinaria. Speriamo che non succeda mai a noi”.
[3] Discorso di papa Francesco al presidente del Governo di Spagna.