Il 9 febbraio 222 prigionieri politici incarcerati dal regime Ortega sono stati deportati negli Stati Uniti – grazie alla mediazione diplomatica del Dipartimento di stato americana. Fra questi anche preti, seminaristi e collaboratori laici che erano stati arrestati insieme a mons. Alvarez, vescovo di Matagalpa, nell’agosto dello scorso anno.
Immediatamente dopo l’imbarco, l’Assemblea generale nicaraguense ha revocato agli esiliati politici la cittadinanza. Essi sono stati accolti negli Stati Uniti in qualità di rifugiati e, nei giorni seguenti, il governo di Madrid si è dichiarato disponibile a concedere a ciascuno di essi la cittadinanza spagnola.
Tra il 5 e il 6 febbraio si erano svolti due processi farsa che condannavano il gruppo dei collaboratori di mons. Alvarez, e un altro sacerdote arrestato sempre nel mese di agosto 2022, a 10 anni di reclusione con l’accusa di cospirazione contro lo stato del Nicaragua. Il 6 febbraio, il presidente della COMECE, card. Hollerich, inviava una lettera di supporto al presidente della Conferenza episcopale nicaraguense, mons. Gutiérrez – assicurandolo dell’impegno della COMECE “di intraprendere ogni passo possibile presso le istituzioni dell’Unione Europea per la liberazione di mons. Alvarez e per promuovere la libertà, lo stato di diritto, la giustizia e la democrazia nel suo amato paese”.
Nelle ore seguenti alla liberazione del 222 prigionieri politici, si è venuto a sapere che mons. Alvarez si era rifiutato di firmare la lettera di consenso alla deportazione (insieme a lui anche un altro prigioniero politico di cui non si conosce ancora il nome). Il giorno seguente, mons. Alvarez è stato condannato in rito abbreviato a una pena detentiva di 26 anni – tra i reati che gli sono stati imputati si elenca il tradimento della patria, la compromissione dell’unità nazionale e la diffusione di informazioni false sul governo del regime Ortega e altre istituzioni dello stato.
Nel medesimo giorno, il presidente Ortega ha accusato mons. Alvarez di arroganza per aver rifiutato di essere deportato negli Stati Uniti insieme agli altri 222 prigionieri politici, definendolo un terrorista. Il vescovo, che fino a quel giorno si trovava agli arresti domiciliari, sarebbe stato condotto nella prigione La Modelo che si trova nella periferia della capitale Managua.
Oltre alla condanna, mons. Alvarez è stato privato di tutti i diritti politici ed è stata revocata anche a lui la cittadinanza nicaraguense. Davanti alla condanna e alle parole del presidente nicaraguense, uno dei deportati ha affermato che si tratta di un gesto di disperazione da parte di Ortega: “Egli sa che c’è un processo di implosione del paese e vuole sradicare qualsiasi leadership che si contrapponga alla sua”. Un altro deportato ha sottolineato il fatto che “mons. Alvarez è un leader nato e per questo è pericoloso: perché non sta zitto ed è coraggioso”.
Venerdì 10 febbraio, Ortega e la vicepresidente Murillo hanno inviato un messaggio di felicitazioni a papa Francesco per la ricorrenza del 94mo anniversario della firma dei Patti Lateranensi: “Siamo orgogliosi di esprimere, a nome del popolo e del Governo di Riconciliazione e Unità Nazionale della Repubblica del Nicaragua, e a nome nostro, le nostre più sincere congratulazioni a voi e alla comunità cristiana cattolica del mondo. Con l’affetto di un popolo cristiano umile e devoto, che avanza sui sentieri della pace e del buon vivere, vi salutiamo in questa data memorabile e storica che coincide con le celebrazioni dell’apparizione di Nostra Signora Vergine a Lourdes”.
Sabato 11 febbraio un portavoce della Segreteria di stato statunitense ha chiesto il rilascio immediato di mons. Alvarez, condannando “la revoca della cittadinanza al vescovo e ai deportati politici: una misura che viola i diritti fondamentali di queste persone”.
La fase del dialogo, a cui aveva fatto cenno tempo addietro papa Francesco, ha permesso che si giungesse alla liberazione dei 222 prigionieri politici deportati negli Stati Uniti. La scelta di mons. Alvarez è coerente alla leadership che gli viene riconosciuta non solo dagli esuli ma anche da ampia parte dell’opposizione popolare al regime Ortega. In questo quadro, gli spazi di movimento della diplomazia vaticana sono angusti, perché non può tener conto del fatto che “la Chiesa nicaraguense è importante perché è l’istituzione che gode della più ampia fiducia tra la popolazione del paese” (T. Breda).
Si tratta ora di sostenerla in questo ruolo, anche davanti al rischio di un implosione violenta del paese – un sentiero di cresta impervio che, nel fare chiarezza sulla posizione della Santa Sede, deve cercare di limitare al massimo una ulteriore escalation della persecuzione contro la Chiesa locale.