L’elezione di Biden a prossimo presidente degli Stati Uniti, e il disagio che la Conferenza episcopale prova trovandosi davanti al secondo cattolico nella storia del paese che va a ricoprire questo ruolo, ha solo reso definitivamente palese un’impasse di lunga data, culturale prim’ancora che politica o ecclesiologica, dell’episcopato americano.
Un breve sguardo retrospettivo può aiutare nella comprensione.
E non dissero nemmeno una parola
Il silenzio imbarazzante della Conferenza episcopale statunitense, e dei singoli vescovi, davanti all’indebita ingerenza del Segretario di stato M. Pompeo in merito al rinnovo dell’accordo fra la Santa Sede e la Cina.
Il quadriennale silenzio della Conferenza episcopale, fatti salvi alcuni interventi isolati di pochi singoli vescovi, sul profilo anticostituzionale del modo di intendere la politica e di gestire il ruolo del presidente da parte di Donald Trump.
Il silenzio della Conferenza episcopale che ha accompagnato il lungo periodo pre-elettorale davanti alle affermazioni di Trump sulla sua volontà di rimanere in carica qualunque fosse stato l’esito delle elezioni – perché in caso di sconfitta i voti che avrebbero portato all’incarico Biden sarebbero stati comunque illegali e ottenuti in modo fraudolento. Un palese vulnus di un aspetto chiave della democrazia rappresentativa.
A Biden eletto, il messaggio con riserva del presidente della Conferenza episcopale mons. Gomez, nel quale per riferimento a Biden si oppone il processo democratico che lo ha eletto alle posizioni dei vescovi. Pochi giorni dopo papa Francesco telefona al presidente eletto Biden per congratularsi – senza che emergano riserve particolari da parte della Santa Sede nei suoi confronti. Da un lato, dunque, i vescovi americani che trattano Biden come un cattolico da disciplinare; dall’altro il papa che interagisce con lui nel rispetto istituzionale e diplomatico del ruolo a cui è stato eletto.
Nel corso della plenaria autunnale della Conferenza episcopale statunitense, il presidente mons. Gomez annuncia improvvisamente in conferenza stampa, senza un’effettiva discussione collegiale, che, dopo essere stato accostato da alcuni vescovi i quali esprimevano serie preoccupazioni e riserve verso Biden in quanto presidente cattolico, sarebbe stato istituito un gruppo di lavoro ad hoc per gestire la situazione complicata e complessa prodottasi con l’elezione di Biden.
Ad assemblea terminata, l’arcivescovo di Washington Wilton Gregory, che sarà quello che si troverà a più stretto contatto con la nuova amministrazione, si smarca dalla posizione della Conferenza episcopale invertendo i termini della situazione per cercare di uscire dallo stallo creatosi: ci sono ampie basi comuni, soprattutto in materia di politica sociale e immigrazione, tutela dell’ambiente e collaborazione internazionale, per imbastire un rapporto cordiale e fecondo con Biden – rimanendo sul tavolo alcune questioni delicate su cui la posizione dell’episcopato e quella del nuovo presidente divergono o entrano in tensione.
Cattolicesimo vecchio stampo
L’approccio di Gregory è il tentativo personale di non tagliare i ponti con Biden prima ancora che egli entri in carica, col rischio di allontanarlo definitivamente da una positiva volontà di interlocuzione con la Chiesa cattolica – soprattutto tenendo conto del fatto che un’amministrazione Biden potrebbe mettere mano a interventi in ambito di sostegno sociale non solo sintonici col pontificato di Francesco, ma anche significativi per una possibile riduzione del numero di aborti nel paese.
Biden è un cattolico persuaso e navigato, di una generazione che sta oramai scomparendo. Sa bene che si troverà di fronte vescovi e preti che gli rifiuteranno la comunione in ragione della sua posizione sull’aborto, e farà bene a gestire con attenzione questi momenti di evidente frizione pubblica con la Chiesa americana – questa volta per non alienarsi lui quel minimo di vicinanza a essa su questioni che rappresentano comunque degli assi portanti del suo programma presidenziale.
E proprio perché appartenente a questa generazione del cattolicesimo americano dovrà anche evitare la tattica di Obama, che ha fatto perno sulle religiose del paese per garantirsi un consenso cattolico in materia di riforma della previdenza sociale e dell’assistenza sanitaria – in contrapposizione all’ostentato rifiuto da parte della gerarchia episcopale.
Nella sua storia Biden non ha mai usato il suo cattolicesimo come strumento politico, piuttosto lo ha presentato senza remore o timori come vissuto di fede di un uomo in politica – con le sue pratiche e le sue devozioni. Potrebbe essere un buon antidoto per non esacerbare la querelle quadriennale che lo aspetta con larga parte dei vescovi e un’ampia fetta del cattolicesimo americano che si rispecchia, volenti o nolenti, nella presidenza Trump. Agendo con sapienza in questo ambito, Biden potrebbe mostrare l’autorevolezza istituzionale del ruolo di presidente della nazione anche rispetto al suo stesso partito.
Gli eredi di Trump
Senza Trump questa Conferenza episcopale è più debole e senza rappresentazione politica. La sua grande tentazione sarà quella di indurire ulteriormente lo scontro con Francesco, a cui far pagare anche l’appoggio convinto dato a Biden – oltre a tutto il resto che divide fin dai primi giorni della sua elezione a vescovo di Roma. Il grande progetto, coltivato nei quattro anni di Trump, di uno scisma di fatto costruito intorno a un’alleanza illiberale affidata dall’ex-presidente agli svolazzi in Europa dei suoi messaggeri alati (che ha costretto Salvini a brandire rosari e vangeli a spron battuto nelle più disparate occasioni) è fallito in corso d’opera e tramontato definitivamente come opzione viabile con la sconfitta di Trump.
Ma l’humus ecclesiale su cui questo progetto ha attecchito all’interno del cattolicesimo americano, attraendo come una mantide religiosa anche un gran numero di vescovi, rimane e non ha certo gettato la spugna.
Si trasforma però da grande progetto politico-culturale globale a questione interna di casa: questo figlio di un Dio minore potrebbe partorire una Chiesa cattolica tutta schiacciata sul nazionalismo americano più spinto. Il cattolicesimo statunitense non sembra avere in sé gli anticorpi necessari per frenare costruttivamente questo americanismo post-trumpiano di una Chiesa delusa dal proprio insuccesso, e di un corpo episcopale che si sta scavando da sé la tomba dell’irrilevanza astiosa nella vita della nazione.
Il cattolico Biden potrebbe qualcosa, più in maniera biografica che ecclesialmente strutturale, se riuscisse a estrarre dal cappello dei suoi primi 100 giorni il coniglio di un abbassamento dei toni di una conflittualità da tutti contro tutti che sta erodendo le basi minimali per qualcosa di almeno lontanamente simile a una coesistenza civile. Un primo passo lo ha compiuto facendo del Coronavirus il nemico comune a un popolo diviso in se stesso, rimanendo con saggezza nei confini nazionali e cercando di dare una ragione per lottare insieme – anziché combattere gli uni contro gli altri.
Qualcosa di più potrebbe forse fare la diplomazia vaticana, visto che per l’attuale nunzio a Washington si avvicina il compimento del 75mo anno di età: al nuovo nunzio spetterebbe il compito ingrato di mediare autorevolmente la nuova amministrazione non verso il paese statunitense, ma verso la stessa Chiesa cattolica americana di cui Biden è membro.
Il mito e la storia
Perché se per il primo presidente cattolico J.F. Kennedy il fatto di essere tale era il problema davanti alla nazione, per il secondo il paese non ha nessun problema rispetto al suo essere cattolico – lo ha però larga parte della Chiesa locale, dei suoi vescovi, del suo clero e dei suoi fedeli.
Al di là del fatto che Kennedy è stato una meteora, tragicamente tolta dalla scena prima che la dura effettività della politica potesse prendere il posto del mito, bisognerebbe considerare Joe Biden come il primo presidente cattolico degli Stati Uniti – ossia quello in cui si decide della cattolicità della politica e della capacità politica di quel che resta del cattolicesimo. Sono momenti che possono fare la storia, non solo degli Stati Uniti, e che potrebbero portare la Chiesa americana a rientrarvi come una delle sue costruttrici.
Questo è però un futuribile, nella realtà attuale si addensano i segni del fatto che siamo oramai entrati nella stagione di un’inversione dei termini. Se nel XX secolo, quantomeno fino al Vaticano II, l’americanismo della Chiesa statunitense era guardato con sospetto dalla nostra parte dell’Atlantico, per via della sua troppo cordiale prossimità al sistema democratico e per la sua presenza massiccia sulla scena sociale del paese come un soggetto fra tanti altri, senza particolari protezioni o esenzioni, oggi sembrano essere le Chiese della vecchia Europa quelle che coltivano con convinzione una salvaguardia della struttura democratica della convivenza civile, dei meccanismi costituzionali posti a garanzia del sistema democratico e di una cultura istituzionale che si oppone a qualsiasi tipo di derive illiberali del potere politico e giudiziario – anche quando queste promettono di implementare valori cattolici ritenuti essere non negoziabili sull’arena del contendere politico e legislativo.
Al di là dell’Atlantico, l’americanismo montante in questi tempi nella Chiesa cattolica sembra essere solo la versione battezzata di un nazionalismo chiuso in se stesso che guarda con sospetto alle istituzioni della democrazia e con disprezzo a ogni forma di diversità (di razza, di credo, di cultura, di prospettiva politica – e anche di fede cattolica).