«Il Santo Padre ha nominato vescovo di Shanghai, in Cina continentale, s. e. mons. Giuseppe Shen Bin, trasferendolo dalla diocesi di Haimen, provincia di Jiangsu».
La nota della Santa Sede (15 luglio) pone fine allo strappo dell’amministrazione dei culti cinese che il 4 aprile scorso aveva insediato Shen Bin senza attendere il consenso di Roma, violando l’Accordo firmato nel 2018, rinnovato nel 2020 e nel 2022.
La diplomazia vaticano era stata avvista due giorni prima senza concederle il tempo di esprime un parere – che sarebbe stato favorevole per il buon giudizio sul vescovo – e farlo insediare dal papa (.settimananews.it/informazione-internazionale/cina-santa-sede-accordo-claudicante/)
Lo sgarbo e i perché
Uno sgarbo da parte del governo che può avere diverse spiegazioni. Forse si è trattato di una prova di forza di personalità del Fronte Unito (uno strumento del partito in rappresentanza della “società civile”) per la quale il ministero degli esteri non ha nascosto un certo imbarazza davanti ai chiarimenti richiesti.
Altri attribuiscono il fatto ai cattolici locali (legati all’Associazione patriottica) per l’urgenza di decisioni ferme da diversi anni. Ulteriore punto di fragilità è il corpo episcopale che non è più quello provato dalla persecuzione di Mao. Shen Bin e i diretti interessati avrebbero potuto pretendere il pieno rispetto dell’Accordo?
Sono figure dignitose e apprezzabili, ma tutte cresciute nel tempo del comunismo e della crescita economica. Non è questa una stagione di martirio. Da parte del governo, che ha rinnovato l’interesse all’Accordo, si dovrebbe percepire che il pur limitato dialogo con la Santa Sede è uno dei pochi varchi viabili davanti all’inquietante crescita delle decisioni anti-cinesi non solo degli Stati Uniti e dell’Occidente, ma anche di molti dei più importanti paesi dell’Asia.
Se la Russia si destabilizza anche il confine cinese a Nord diventerebbe fragile. Inoltre la Santa Sede è uno dei pochi interlocutori in grado di porre qualche domanda alla “sinizzazione delle fedi” e all’ingenua pretesa di gestire in toto come partito il “bisogno religioso”. Come il passato ha dimostrato.
Il manico e il coltello
Nel novembre del 2022 la Sante Sede aveva stigmatizzato pubblicamente l’insediamento del vescovo ausiliare di Jiangxi, avvenuto senza il consenso di Roma. Questa volta, consapevole del “pasticcio cinese”, non l’ha fatto.
Del resto – ci ha detto un autorevole osservatore – se si chiude la porta e si va allo scontro come alcuni chiedono, si rischia di affidare le comunità cattoliche a una repressione devastante e, di sicuro, ci si troverebbe davanti a uno scisma. Inoltre arrivano a Roma dei segnali concreti di unità nell’azione pastorale di preti appartenenti a diocesi molto conflittive. «La cosa che non tutti capiscono dentro la Chiesa è che il coltello dalla parte del manico c’è l’ha il governo».
Ci si attende da mons. Shen Bin una rivitalizzazione della maggiore diocesi cattolica nel paese. A partire dalla soluzione degli “arresti domiciliari” per il vescovo ausiliare Taddeo Ma Daquin, confinato da anni nel seminario.
Puntualizzazioni di Parolin
A spiegare la decisione della Santa Sede si è esposto direttamente il card. Pietro Parolin, segretario di stato.
Denuncia anzitutto il disconoscimento dell’Accordo: «Questo modus procedendi pare non tenere conto dello spirito del dialogo e della collaborazione instauratisi tra la parte vaticana e la parte cinese negli anni e che ha trovato un punto di riferimento nell’Accordo. Il santo padre Francesco ha comunque deciso di sanare l’irregolarità canonica creatasi a Shanghai in vista del maggior bene della diocesi e del fruttuoso esercizio del ministero pastorale del vescovo».
Sottolinea la necessità di rispettare «il principio fondamentale della consensualità delle decisioni riguardanti i vescovi», dialogo che permetterà di evitare difficoltà in futuro. «È importante, perciò, direi anzi indispensabile, che tutte le nomine episcopali in Cina, compresi i trasferimenti, vengano fatte consensualmente, come pattuito, e mantenendo vivo lo spirito del dialogo tra le parti».
Annuncia poi i tre temi maggiori da affrontare: «la conferenza episcopale, la comunicazione dei vescovi cinesi con il papa, l’evangelizzazione». L’attuale consiglio dei vescovi non è riconosciuto da Roma perché mancano i vescovi “sotterranei”. La comunicazione con Roma è da facilitare.
Il recente viaggio del vescovo di Hong Kong a Pechino è positivo, come gli inviti a ricambiare la visita ad altri vescovi della Cina continentale. È stata chiesta da Roma una delegazione di cinque vescovi cinesi per il prossimo sinodo, senza ottenere finora alcuna risposta. L’evangelizzazione deve essere riconosciuta anche per le comunità “clandestine”. Quei credenti meritano fiducia perché sono cittadini leali.
E conclude con una quarta richiesta che è da tempo sul tavolo: «Mi sembra che sarebbe sommamente utile l’apertura di un ufficio stabile di collegamento della Santa Sede in Cina. Mi permetto di aggiungere che, a mio parere, tale presenza favorirebbe non solo il dialogo con le autorità civili, ma contribuirebbe pure alla piena riconciliazione all’interno della Chiesa cinese e al suo cammino verso una desiderabile normalità».
«Oggi, nel momento cruciale dell’applicazione (dell’Accordo), abbiamo bisogno della buona volontà, del consenso e della collaborazione, che ci hanno permesso di stipulare questo patto lungimirante! La Santa Sede è decisa a fare la sua parte perché il cammino continui».