Cisgiordania: insediamenti, violenza, omertà

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Cosa succede alle case lasciate vuote dai palestinesi in Cisgiordania? Sono messe sul mercato con ottimi profitti per le agenzie immobiliari israeliane.

Per niente timido, l’agente immobiliare israeliano risponde in tempo reale ai potenziali acquirenti del suo listino di proprietà, soprattutto se occidentali; le sue mail sono brevi e dirette: chiede il numero di telefono perché si fa prima, a voce. Isaac – nome di fantasia – ha il talento di vendere come si legge su Linkedin.

Ha lavorato per quasi un anno, nel 2020, negli Stati Uniti e, da dicembre 2023, opera a nome della ditta Klas – Marketing services for Real Estate developers – con sede al civico 8 di Abba Eban Blvd, a Gerusalemme.

In vendita anche le case tolte alle famiglie palestinesi o costruite sui territori occupati. C’è fretta di metterle sul mercato. E, per venderle, Isaac cerca i canali giusti inoltrando link e inserzioni nei gruppi nazionalisti di Tel-Aviv. Alla stessa maniera vengono fatti dei Crowdfunding per sostenere i soldati in guerra e campagne di preghiera e solidarietà per gli ostaggi di Hamas.

Violenze e profitti

«Vivi in un paradiso – si leggeva nello spot diffuso pochi mesi fa, con tanto di Gallery fotografica – insieme ai tuoi cari». Quella casa era ubicata nei pressi di Hamoshava, l’insediamento dal quale, nel 1948, sono state espulse centinaia di famiglie palestinesi. È una delle tante case ammodernate, con piscina all’esterno, che si costruiscono negli insediamenti e nei territori occupati della Cisgiordania. Oltre 5.700 di esse sono state approvate un anno fa, il 26 giugno 2023, dal Consiglio Yesha: l’organizzazione che riunisce la totalità degli insediamenti in Giudea, Samaria e dintorni.

Arriva a 13.000 il totale delle abitazioni approvate nel 2023: +300% rispetto all’anno precedente. Queste ultime sono state vendute a prezzo di mercato dalle ditte edili, nonostante i terreni del fabbricato siano gratuitamente concessi dal governo israeliano.

Un caso emblematico riguarda la ditta Binyanei Bar Amana, affiliata all’Amana Settlement Movement, nata nel 1976 per costruire comunità in Giudea, Samaria, nelle Alture del Golan, nel Negev e a Gush Katif; una ditta privata, extra-statuale, che da decenni si occupa della gestione delle terre espropriate ai palestinesi.

Solo a Gerusalemme, Amana vanta contratti decennali sia con la municipalità sia con i proprietari terrieri israeliani. Da tali contratti risulta l’ottenimento di 713 ettari di terreno e il ricavo di 930.892 nuovi sicli ogni anno, che equivalgono a 247.644,80 euro.

Vanno in mano ad Amana le terre abbandonate dai palestinesi espulsi con l’uso della forza: si tratta di 1.208 persone, nel periodo che va dal 7 ottobre 2023 al 29 gennaio 2024, persone che, con ogni probabilità, finiranno nei campi dei rifugiati delle Zone C. Più di un terzo, 586, sono bambini. Sono state sfollate anche intere comunità beduine.

Amana è stata fondata nel 1974 dal movimento Gush Emunim ed è sostenuta dallo Jewish Underground, considerato un’organizzazione terroristica dallo stesso Stato israeliano. Il gruppo si è opposto apertamente agli Accordi di Camp David, considerati un primo passo per la nascita dello Stato palestinese in Cisgiordania.

Ed è proprio in Cisgiordania che lo Jewish Underground intraprende azioni ostili ai danni delle famiglie palestinesi affinché abbandonino il territorio. Si tratta – ha commentato Robert Friedman, giornalista investigativo statunitense scomparso nel 2002 – della «più violenta iniziativa anti-araba sin dalla nascita dello Stato di Israele». Ed è appunto da questo processo – fatto di intimidazioni, rappresaglie e violenze dirette – che vengono liberati i terreni poi consegnati ad Amana.

I palestinesi? Non esistono

A vedere la mappa attuale della Cisgiordania, ci si rende conto che la missione è quasi giunta a termine. Perché la realizzazione di uno Stato palestinese è pressoché impossibile in un territorio così discontinuo, ferito e frammentato, dove la libera circolazione è ostacolata da insediamenti talvolta disabitati – le cui proprietà riconducono a famiglie residenti negli Stati Uniti –, ma vigilati da milizie private.

Arrivano in ritardo gli Stati Uniti nel sanzionare due entità – Mount Hebron Fund e Shlom Asiraich – che finanziano apertamente i coloni della Cisgiordania: anche perché la rete che connette l’America profonda ai coloni è ben più fitta e non conduce più alle sinagoghe ma a quella matrice protestante, fondamentalista, che misconosce il Medioriente e interpreta la Bibbia a modo suo.

In ritardo anche il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Irlanda, della Spagna e della Norvegia. Gesti di ampia portata simbolica, ma poco realizzabili per le ragioni sopracitate.

È un progetto la rimozione di tutto ciò che è palestinese, un progetto apertamente sostenuto dal ministro delle finanze israeliano che, il 19 marzo, a Parigi, ha dichiarato: «Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni di vita. Hanno una storia o una cultura? No, non le hanno. I palestinesi non esistono, esistono solo gli arabi».

Nulla di diverso da quanto già affermato, a suo tempo, da Golda Meir. E la cosa è arrivata Oltreoceano, nei bagagli dell’Israel Real Estate Event che si è svolto a Montreal, Toronto, New Jersey e New York nel mese di marzo. C’erano quelle case, prima appartenute ai palestinesi e ora in vendita, nei cataloghi proposti a clienti e visitatori.

Le comunità arabe residenti in Canada e negli Stati Uniti sono insorte, ma non è bastato. Già lo diceva una fonte italiana che opera a Betlemme: «C’è un problema di accountability. Un senso di ingiustizia, di assenza dello Stato di diritto, che è causa di tutta la violenza che qui si respira». E ha ragione.

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