Nella Repubblica Democratica del Congo la sofferenza della gente sembra non avere fine. A metà novembre il vescovo di Uvira, Sébastien-Joseph Muyengo, aveva inviato una nota a Utembi Tapa Marcel, arcivescovo di Kisangani e Presidente della conferenza episcopale nazionale (CENCO), per esortarlo a lanciare un appello sulla situazione nel Nord e nel Sud Kivu, denunciando le violenze sempre più frequenti e più gravi.
Il comunicato
Mons. Utembi ha pubblicato un comunicato in tre brevi paragrafi. Nel preambolo descrive l’aggravarsi della situazione per la gente del Nord e del Sud Kivu dove le violenze e i massacri si moltiplicano al punto da contare più di 80 vittime tra la popolazione nel solo mese di novembre. Il virus Ebola continua il suo contagio, accompagnato da altre epidemie. La popolazione è costretta continuamente a spostarsi, traumatizzata e sempre più povera. Molti villaggi sono saccheggiati, distrutti e bruciati, le scuole sono frequentate da un piccolissimo numero di alunni…
Mons Utembi sottolinea l’inaccettabilità di questa situazione di sofferenza e lascia trasparire una delusione a riguardo dell’assenza delle istituzioni dello Stato e delle organizzazioni internazionali. Esprime la sua solidarietà alle popolazioni e alla Chiesa di quelle zone e presenta le condoglianze alle famiglie in lutto.
Nel secondo paragrafo enumera le violenze, datate e localizzate, sottolineandone la crudeltà e la frequenza sempre più alta. Segnala poi che tante di queste carneficine avvengono vicino a postazioni dell’esercito regolare congolese e che solo un coinvolgimento serio delle autorità locali e nazionali può offrire una soluzione al problema.
Nell’appello finale invita, assieme a tutta la conferenza episcopale nazionale, ad elaborare programmi urgenti per creare un clima pacifico; a rimettere in movimento le diverse istanze dello Stato, autorità, polizia, esercito, immigrazione; a intervenire con un programma di solidarietà nazionale con aiuti umanitari per chi ha subito e subisce le conseguenze di questi conflitti; a creare immediatamente un quadro di dialogo per ristabilire un clima di giustizia, di pace, di riconciliazione.
“Via la missione ONU dal Congo”
La reazione della gente a queste violenze appare tuttavia diversa. Dopo i numerosi morti del mese di novembre, è cresciuta una certa antipatia nei confronti della presenza della MONUSCO, la missione ONU in Congo, fino a diventare opposizione manifesta. In diverse città delle regioni Nord-orientali del Paese, tra cui Goma, Beni, Butembo, e pure nella capitale Kinshasa, continuano manifestazioni, anche violente, di protesta contro questa missione dell’ONU, fino a ripetere come ritornello “via la MONUSCO dal Congo”.
A dire il vero, questo sentimento di avversione è presente da tanti anni. Questa missione era arrivata in Congo all’inizio di questo secolo, dopo la successione di Kabila Laurent a Mobutu Sese Seko. Lo scopo era quello di “osservare” e di difendere la popolazione. Col passare del tempo, alcuni conflitti locali, ma soprattutto la presenza di truppe ruandesi, ugandesi, dello Zimbabwe e dell’Angola, mettevano nell’insicurezza la vita della gente e spesso questa contava le sue vittime. È nato da qui il primo sintomo di vera e propria avversione. La gente si vede maltrattata da ogni sorta di eserciti e di bande armate, e la MONUSCO non fa niente, non interviene in sua difesa.
È noto a tutti che, dal 1996, il Congo non è mai stato veramente in pace e che la gente non sa più a chi riferirsi né con chi prendersela. I fatti incresciosi del 2019 e l’assoluta impossibilità di vedere una soluzione positiva hanno portato la gente ad assalire letteralmente le postazioni della MONUSCO, recando danni alle infrastrutture. Come non bastasse, l’uccisione di un manifestante da parte di un militare della MONUSCO ha aumentato la rabbia della popolazione la quale, tra l’altro, accusa la missione ONU di essere connivente con gruppi ribelli.
Il colpevole silenzio internazionale
E in Congo sta piovendo come mai era accaduto prima. Una pioggia che non lava la storia da queste sofferenze, ma che, al contrario, aggiunge altri disagi e ancora morti causati dalle alluvioni. Si può e si deve chiedere alle congolesi e ai congolesi di reagire, di rimboccarsi le maniche, di abbandonare visioni tribali ed egoiste, ma è ora che tutta la comunità internazionale si interroghi sul suo silenzio o sulla sua complicità con chi vuole mettere a tacere ottanta milioni di persone per appropriarsi più facilmente della loro ricchezza naturale.