Il 6 ottobre 1981 veniva assassinato al Cairo il presidente Anwar al-Sadat, il primo leader arabo a firmare un trattato di pace con Israele. La strategia di chi lo ha ucciso è andata in crisi il 17 settembre 2024? L’assassino di Sadat, Kalid al-Istambuli, è ricordato a Teheran, dove è intestatario di un viale a lui dedicato.
Eravamo agli albori del khomeinismo, un’autentica rivoluzione che ha introdotto infinite novità nel mondo islamico, di cui qui val la pena di ricordarne almeno tre: la teocrazia, il pensiero apocalittico, la pratica degli attentatori suicidi. Il sentimento popolare di umiliazione, di sconfitta, ha accompagnato le novità khomeinste nella corsa alla conquista delle piazze arabo-islamiche. Khomeini, come i suoi, non era arabo, era iraniano, o forse sarebbe più corretto dire persiano. La sua rivoluzione, nei fatti, mirava a rifare l’impero persiano e rifacendolo a conquistare l’islam fino al Mediterraneo – in una sfida frontale ad altri islam.
Questa conquista riguardava in primo luogo Iraq, Siria e Libano, riportando così Teheran a controllare il territorio che la separa dal Mediterraneo, con l’intermediazione di Stati falliti e sottoposti. Poi si è aggiunta la costola yemenita, nel sud della penisola arabica, cioè al capo opposto della regione. Una tenaglia contro le monarchie arabe del Golfo, collegate tra di loro, di diverso orientamento politico e religioso.
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Il valore di fondo di questa impresa cominciata negli anni Ottanta è sia pratico che teologico-ideologico. Sul versante politico-pragmatico si persegue un proprio calcolo di potere regionale, controllare territorio e conquistare potere. Contemporaneamente si mira però a trasformare l’islam e renderlo una religione teocratica e basata sul pensiero apocalittico. Detto in termini dozzinali, l’obiettivo del pensiero apocalittico khomeinista è avvicinare la fine del mondo, cioè il giorno dello scontro finale, quando il bene prevarrà definitivamente sul male. Dunque il tempo non è più lineare, ma conflittuale: il tempo apocalittico procede per urti sempre più forti, aggravandoli in modo da rendere sempre più prossimo l’urto finale.
L’enorme operazione che ha portato alla simultanea esplosione di migliaia di cercapersone a Beirut ha colpito al cuore il khomeinismo. Perché Hezbollah, il gruppo khomeinista che opera in Libano, è la principale delle milizie armate costruite dall’Iran in tutti questi Paesi. È l’altro terminale dell’arco khomeinista: l’avamposto sul Mediterraneo. Senza quell’avamposto tutto il resto potrebbe sfarinarsi.
La strategia khomeinista è stata chiara dal 6 ottobre 1981: impedire agli arabi sunniti di trovare un accordo di pace con Israele e gli Stati Uniti, e magari anche l’Europa, per imporsi come vero interlocutore regionale. Per questo rivendicare l’azione di Istambuli fu decisivo: la scelta di pace è un tradimento, come quello compiuto da Sadat, giustiziato da un martire. L’obiettivo pragmatico era semplice: un’eventuale pipe-line petrolifera mediorientale capace di approvvigionare l’Europa doveva partire da Teheran, non da Riad o da Dubai. Ma il risultato ideologico era tutt’altro: i trattati sono un tradimento, i martiri, gli attentatori suicidi, non muoiono ma vanno a collocarsi in una intra-tempo da dove spingono verso lo scontro definitivo. Questo il senso del culto khomeinista del martirio.
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Per risultare convincente per persone normali, angustiate dall’oggi, la strategia khomeinista doveva dimostrare che la forza gli era possibile, mentre gli inetti monarchi arabi avevano perso tutte le loro guerre. Ma le azioni dei gruppi miliziani alleati di Teheran, culminate nel pogrom del 7 ottobre dello scorso anno, hanno messo in discussione tutte ciò che i “moderati” avevano conseguito in decenni: i termini del trattato di pace tra Egitto e Israele, l’autonomia conseguita dalle città palestinesi con i famosi accordi di Oslo – tutto questo oggi svanisce grazie al prevalere delle forze khomeiniste. E il Libano, che nel 2006 con il suo premier avversario di Hezbollah Fouad Siniora, seppe indicare al mondo la risoluzione che pose termine alla guerra tra Hezbollah e Israele, sta perdendo la sua sovranità in un cupio dissolvi nazionale.
Oggi è probabile quel che molti scrivono, e cioè che le piazze arabe siano sotto shock, impaurite dall’enormità di ciò che è accaduto. Ma questo shock, al di là di ulteriori pericolosissimi sviluppi, potrebbe dimostrarsi proficuo, come sempre accade alle crisi, se facesse ripensare agli individui il vero valore della cultura del negoziato; la vera forza non è quella di chi spara o organizza attentati suicidi, ma di chi sa capire il mondo, facendosi capire dal mondo (sono i bambini di Gaza che creano empatia, non Sinwar).
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Hezbollah ha imposto il culto della forza armata con decenni di azioni sanguinose, anche contro inermi popolazioni arabe – tutte operazioni effettuate nel nome e per conto dei soli interessi iraniani. Queste azioni hanno consapevolmente portato al disastro yemenita, siriano, a quello di Gaza, ora a quello libanese, un Paese affluente ora ridotto letteralmente sul lastrico. Un disastro totale per milioni e milioni di arabi, tutti disastri umani, ma fruttuosi in termini di egemonia per Teheran, ritenuta il vero polo alternativo a quello occidentale, senza averne la capacità militare né di intelligence.
Ora Hezbollah sa di essere al bivio: se reagisce allo smacco patito con l’esplosione dei cercapersone si mette in ginocchio da sola, favorendo Trump; altrimenti incassa in silenzio, dimostrando che il mito della forza era un’illusione. È questa la via per ottenere diritti? La strada che avrebbe migliorato la vita degli arabi, di milioni e milioni di arabi, non era quella inaugurata con fatica, sofferti compromessi e tanto sudore da Anwar al-Sadat?
Siamo a uno snodo decisivo, se divenisse culturale: abbandonare la fallimentare via dell’esportazione della rivoluzione teocratica, strumentalizzata dal neo-imperialismo iraniano, e ricordarsi di Sadat. La faticosa, difficile, impervia via del negoziato: cioè la via del colloquio con il mondo, non contro, per sanare le ferite nel nome di diritti e riconciliazione. Una strada faticosa, ma, in fin dei conti, la via davvero coraggiosa, come ha insegnato Mandela. Oggi però, giovedì 19 settembre, parla il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah.
Grazie, per aver illustrato è spiegato con chiarezza la strategia sottesa all’attacco israeliano.
Sono più chiare ora le ragioni delle azioni orrende di Israele contro Gaza.
Sopravvivenza in un’ area ferocemente nemica.