Intervista ad Anna Zafesova – giornalista de La Stampa – sulla società russa dopo la fuga di molti cittadini a seguito della mobilitazione dichiarata da Vladimir Putin e a quasi otto mesi dall’aggressione dell’Ucraina.
- Gentile Anna, quanti russi sono fuoriusciti dalla Federazione dalla dichiarazione del 21 settembre?
Non abbiamo numeri precisi. Sappiamo da fonti non ufficiali – comunque riferibili al governo russo – che nei primi dieci giorni di chiamata alle armi, per effetto della cosiddetta mobilitazione parziale, sono uscite dalla Russia più di un milione di persone.
Altri dati sono acquisibili da singoli Paesi limitrofi di espatrio – quali il Kirghizistan o l’Uzbekistan – che hanno fornito numeri sull’attraversamento delle loro frontiere: non possiamo peraltro sapere quante persone le abbiano attraversate per motivi diversi dal timore dell’arruolamento, così come non possiamo sapere quante abbiano proseguito verso altri Paesi, ovvero siano in seguito rientrate in Russia. Tuttavia, anche questi dati parziali, confermano l’ipotesi di un fenomeno dalle dimensioni rilevanti.
Vero è che, dopo i primi giorni e le prime settimane, l’esodo è rallentato, per diversi motivi. Uno di questi è che la Federazione russa ha cominciato a bloccare l’uscita degli uomini soggetti all’obbligo di chiamata alle armi. Molti, a quel punto, non hanno tentato più l’uscita, perché presi dalla paura di essere arrestati ai confini.
È iniziato allora un esodo alternativo – interno alla Russia – per non farsi trovare a casa o nel posto di lavoro: ma di questo, ovviamente, non abbiamo, né possiamo avere, numeri precisi. Ho segnali indiretti: molti moscoviti sostengono, ad esempio, che la loro città appare più vuota, che ci sono meno persone in circolazione e che i negozi sono meno frequentati, così come i bar e i ristoranti.
Un altro indice indiretto è la quantità di appartamenti messi in vendita e la discesa dei relativi prezzi, soprattutto nei quartieri benestanti di Mosca e dintorni.
Migrazioni russe: da dove e chi
- La migrazione ha interessato le grandi città della Russia, più dei centri urbani delle regioni? Verso dove?
Sì, il fenomeno ha interessato soprattutto le grandi città come Mosca e San Pietroburgo. L’esodo è avvenuto in prevalenza verso i Paesi che accettano cittadini russi senza passaporto per l’estero, cioè soltanto con i documenti interni d’identità, quindi soprattutto verso la Georgia, nel Caucaso.
Altri russi – in numero minore – sono fuggiti in Paesi ove è richiesto il passaporto. Considerato che meno di un terzo dei russi possiede il passaporto, è presumibile una selezione per ceto, tenore di vita, idee, costumi, strumenti culturali già acquisiti in precedenti e frequenti viaggi all’estero.
Sicuramente chi ha deciso di andarsene aveva ed ha disponibilità economiche: non è altrimenti facile partire con l’intera famiglia o comunque soli senza risorse. Ricordo che la maggioranza dei russi, secondo un sondaggio demoscopico – che ritengo attendibile – dichiara di non possedere risparmi ossia di spendere tutto quello che guadagna per vivere.
- Chi se ne andato?
Il profilo dei fuoriusciti è descrivibile in chi ha richiesto apertamente asilo o permesso di soggiorno temporaneo nei Paesi di trasferimento: lì stanno affittando appartamenti e assumendo i codici fiscali per le operazioni ordinarie.
Prendiamo appunto il caso della Georgia: il costo degli appartamenti ormai ha raggiunto livelli altissimi. Secondo le stime dei georgiani c’è quasi mezzo milione di russi nel Paese, sommando quelli usciti all’inizio della guerra, tra febbraio e marzo, e quelli usciti con la seconda ondata prodotta dalla mobilitazione, tra settembre e ottobre.
- La mobilitazione è terminata o no?
L’impressione dall’estero è che l’effetto prodotto dalla dichiarazione di mobilitazione non sia affatto estinto.
Come dicevo e so per certo, ci sono ancora molti russi che stanno cambiando casa, che si guardano bene dall’aprire a chiunque suoni alla porta, che prendono ferie o si danno per malati pur di non farsi trovare in ufficio o in fabbrica; vanno in campagna, si nascondono nelle dacie dei villaggi remoti ove sperano di non essere raggiunti da militari e poliziotti. Di questi fatti non abbiamo numeri, bensì una sensazione diffusa.
Quanto alla fine della mobilitazione – come spesso avviene in Russia – si sta giocando sull’incertezza. Putin e il ministro della difesa Shoigu hanno ripetutamente annunciato che la mobilitazione è terminata, con un invito – implicito – ai transfughi a tornare.
Ma arrivano dalla Federazione russa numerosissime testimonianze che la mobilitazione non è affatto finita: le lettere di coscrizione continuano ad arrivare. Del resto, la situazione dell’esercito russo in Ucraina non è affatto migliorata. Il tasso di mortalità tra i combattenti resta altissimo.
Nuovi soldati
- Cosa sappiamo di coloro che giungono alla guerra in Ucraina da neo-reclutati?
Secondo alcune testimonianze l’aspettativa di vita media delle reclute che arrivano al fronte è di due settimane. Si tratta di persone non addestrate, mandate a combattere nel giro di pochi giorni, mal equipaggiate, persino mal alimentate e prive di medicinali.
Ciò si evince dal monitoraggio degli annunci sui social, dalle mail e lettere inviate alle famiglie. Si capisce che ci sono state tantissime vittime, specie nell’ultimo mese. È passato poco più di un mese dall’inizio della coscrizione e già stanno arrivando parecchi messaggi dell’esercito alle famiglie comunicanti il decesso del congiunto in combattimento.
- Quindi il governo continua a reclutare?
È sintomatico che Putin insista nell’affermare pubblicamente che la mobilitazione è finita. Ad un certo punto, incalzato, si è pure giustificato sostenendo che non era necessario un secondo suo decreto, dopo il primo, per fermarla. Quindi un decreto non c’è, ma, secondo il presidente, la mobilitazione si è fermata.
È questo un chiaro indizio, secondo me, che il governo è perfettamente consapevole di quanto la mobilitazione sia assai poco popolare, anche tra chi gli ha sempre dato sostegno.
Penso e temo che giocando, come sempre, sulla ambiguità, Putin possa indurre molti che sono scappati a ritornare in Russia. Questi non possono permettersi di vivere all’estero per tutto il resto della loro vita lontani dalle famiglie e senza lavoro.
Ricordo che la maggioranza degli uomini di questo secondo esodo non pone grandi obiezioni ideologiche a Putin, a differenza di coloro che se ne sono andati negli anni precedenti o nella prima ora della guerra: sono quindi più inclini a tornare.
Verso l’Europa
- C’è un flusso di russi anche verso l’Europa?
La Finlandia era la principale porta di accesso – diretta – verso l’Europa: ebbene, dalle prime settimane di ottobre, la Finlandia ha chiuso i propri confini ai cittadini russi dotati di solo visto turistico. Tutte le facilitazioni in vigore sono state tolte.
In Finlandia ora possono entrare soltanto i russi che riescono a fornire alle autorità validi motivi, quali il ricongiungimento familiare, le cure mediche o importanti ragioni umanitarie e culturali.
- È difficile – per non dire impossibile – ai russi raggiungere dunque i Paesi europei?
Non è impossibile. Gran parte dei Paesi europei – tra cui l’Italia – non stanno precludendo l’ingresso ai cittadini russi. Ci sono Paesi che applicano rigide restrizioni, quali i Paesi baltici, la Repubblica Ceca e la Polonia. Ma le porte dell’Europa non sono di per sé chiuse. Certo è difficile entrare direttamente.
L’Europa può essere raggiunta solo prendendo un aereo da un Paese terzo, perché, come noto, i collegamenti aerei diretti sono stati sospesi dalle sanzioni stabilite all’inizio della guerra. Quindi chi vuole raggiungere, ad esempio, l’Italia, deve passare per la Turchia piuttosto che dagli Emirati Arabi.
Ovviamente bisogna essere dotati di visti turistici oppure di visti multipli rilasciati dalle ambasciate europee. Ricordo che sono tantissimi i russi che nel corso degli anni hanno ottenuto visti d’affari, di studio, di cultura, oppure perché proprietari di immobili in Paesi europei. Quindi ci sono ancora tante valide ragioni per chi voglia entrare in Europa.
Ogni Paese applica proprie politiche al riguardo, pur seguendo l’indicazione generale dell’Unione Europea nell’ambito del pacchetto di sanzioni approvato a settembre: l’indicazione generale è di prestare maggiore attenzione ai russi che frequentano l’Europa, verificando se possano essere pericolosi per la sicurezza della stessa. Sono in atto processi di ottenimento di visto più complessi e gli ingressi sono soggetti a maggiori controlli.
Alcuni Paesi stanno già applicando o stanno discutendo l’applicazione di visti umanitari per chi si senta in pericolo e voglia lasciare la Russia.
La soluzione per questi casi non è semplice: la possibilità di conseguire un visto c’è solo nelle grandi città della Russia in cui ci sono i consolati: tedesco, italiano, francese, ecc. Inoltre, non è chiaro il rischio che possano correre coloro che chiedano un visto umanitario – preludio della richiesta d’asilo in un Paese europeo – mentre ci si trova ancora nel territorio della Federazione russa. Su questo aspetto aleggia molto riserbo, anche da parte delle rappresentanze diplomatiche europee, per comprensibili ragioni.
- Mi pare che la questione abbia suscitato molto imbarazzo e posizioni discordi in Europa.
Se ne è discusso e probabilmente se ne sta ancora discutendo. Ci sono sicuramente posizioni discordanti. Obiettivamente ci sono Paesi che rischierebbero di essere riempiti al punto di dover allestire campi profughi per i russi, altri Paesi sono totalmente indifferenti, altri ancora sarebbero pronti a spalancare le porte, ma a certe condizioni.
Faccio l’esempio di Cipro in cui si trovano già numerosissimi turisti russi e possessori di immobili, società, conti bancari. Naturalmente, in questo caso, interessa un certo tipo di russi, quelli più benestanti e in grado di portare soldi.
Con queste premesse non penso che si possa arrivare in tempi brevi a una decisione comune a livello europeo.
- In questi mesi, sono arrivati cittadini russi anche in Italia intenzionati a restare?
Ne sono sicuramente giunti e ne conosco. Non ho numeri. Andrebbero richiesti al Ministero degli Interni. Le richieste di asilo e di protezione internazionale vengono fatte agli organismi dell’Interno, non alle rappresentanze diplomatiche. Non so quanti degli arrivati abbiano intenzione di chiedere asilo.
Vivono problemi di cui abbiamo già trattato: hanno soprattutto paura di ritorsioni sui familiari in patria. Effettivamente conosco casi di persecuzioni, perquisizioni, minacce alle famiglie ed ai genitori. Molti pensano e sperano che, comunque, questa situazione non duri troppo a lungo.
I russi in Italia sono arrivati con visti turistici e – tranne qualche caso – non stanno presentando domanda di asilo, cosa peraltro non così semplice – e breve – da ottenere per tutti i profughi stranieri in Italia.
Le istanze devono essere accompagnate da documenti comprovanti la condizione di persecuzione. Chi è fuggito dalla generica chiamata alle armi di Putin spesso non porta alcun documento con sé. Sta alle autorità italiane ed europee interpretare quanto possa essere fondata la richiesta di protezione.
Ripeto ciò che avevo già detto: assistiamo a casi di esuli russi sfuggiti alla chiamata alle armi ma che non per questo hanno iniziato a capire e a condannare i torti di cui è responsabile la Russia sull’Ucraina o a condividere buone idee sui diritti umani o sulla democrazia.
Purtroppo, sto pure registrando sempre più casi di aggressione a profughi ucraini da parte di russi fuori dal loro Paese, ad esempio in Germania. Trovo quindi giustificata la prudenza di molti Paesi europei circa l’accoglienza dei russi.
- Nei giorni scorsi è circolata la notizia del progetto di costruzione di un muro di centinaia di chilometri tra la Finlandia e la Russia. Cosa ne pensa?
Penso che, se verrà costruito, non sarà per frenare o impedire l’esodo umano di cui stiamo parlando, bensì per ragioni di sicurezza di ben altra durata. La Finlandia si sente – da sempre – minacciata dalla Russia.
Ricordo che la Finlandia è stata vittima dell’aggressione dell’Unione Sovietica nel 1940, per certi versi modello dell’attuale aggressione all’Ucraina: la cosiddetta guerra d’inverno è stata persa dall’Unione Sovietica perché la Finlandia è riuscita a respingerla. Il Paese aggredito ha dovuto tuttavia cedere territori che sono tuttora in mano russa, quale la Carelia. Le popolazioni di quei territori sono state costrette a scappare ovvero sottoposte a pulizie etniche, oppure alla necessità di nascondere la propria identità finlandese.
Trovo del tutto comprensibile che la Finlandia si senta minacciata dalla Russia e colga l’attuale contingenza per rafforzare il proprio confine in chiave difensiva. Con la adesione della Finlandia alla NATO, il confine finlandese sta diventando un confine della NATO.
Israele terra d’esodo
- Non abbiamo ancora parlato dell’esodo verso lo Stato d’Israele.
Tanti cittadini russi sono andati in Israele in questi mesi. Qualche settimana fa lo stesso governo israeliano ha reso noto il numero di sessantamila persone, tra quante hanno fatto aliyah – ascesa – in Israele e quante hanno intrapreso la procedura di cittadinanza israeliana. Sono cittadini russi con radici ebraiche, anche se piuttosto remote.
Come noto, in Russia, così come in Bielorussia, la diaspora ebraica ha radici molto profonde. Nonostante ripetute ondate di fuga e migrazioni – causate dai pogrom e dalle politiche antisemite dell’URSS -, oltre che dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, ci sono ancora comunità ebraiche e numerose persone che possono rivendicare tali origini. Tutto questo torna di attualità per quanti – russi – stiano cercando un Paese in cui trasferirsi.
Gli ebrei russi che non avevano sinora attivato questa opzione, ora vi stanno facendo ricorso. Il flusso che sembrava praticamente interrotto o sceso a livelli endemici, dopo gli anni ‘90, è ripreso. A un certo punto – recentemente – il governo israeliano ha annunciato la volontà di istituire voli supplementari dalla Russia per “evacuare” i cittadini ebrei, nel caso la loro permanenza fosse percepita da loro stessi come pericolosa.
- Questo tipo di aliyah è ben accolta in Israele?
Senz’altro. In Israele esiste una importante comunità di origine russa. Gli israeliani provenienti dalla Russia sono in genere benestanti, colti, preparati, con capacità professionali spiccate. Sono spesso impiegati nelle specializzazioni informatiche, nella matematica e nella ricerca. Non a caso, la parte russofona in Israele – elettoralmente – sostiene la destra israeliana.
- Quanto pesa la componente religiosa in questa scelta per Israele, secondo lei?
Secondo me, alla fin fine, la scelta religiosa è secondaria. La maggior parte degli ebrei in Russia è laica, per effetto dell’educazione “atea” ricevuta in Unione Sovietica. Era allora molto difficile, se non impossibile, specie agli ebrei, praticare apertamente la propria religione.
Negli ultimi anni si sono comunque instaurati buoni rapporti tra le comunità ebraiche di tradizione e le autorità di Mosca e delle grandi città. Gli ebrei non avevano e non hanno particolari problemi a manifestare le proprie origini, anche se, appunto, remote.
Vedremo però che cosa sarà di questo passo: l’ideologia del Russkij mir è fortemente nazionalista anche dal punto di vista religioso e non può non implicare componenti antisemite.
Notizie dal fronte
- Quali sono le reazioni delle famiglie russe e della società in genere alle notizie di morte che giungono dal fronte in Ucraina?
Come dicevo, notizie e reazioni passano soprattutto attraverso i canali privati delle famiglie. Le reazioni sono controverse. Alcune madri o alcuni padri – intervistati da media più o meno ufficiali o informali – hanno dato giustificazione alla morte dei loro figli. Gli psicologi ritengono che questa sia una elaborazione in qualche inevitabile: nel momento in cui si perde un figlio non è possibile ammettere che sia morto inutilmente o per una causa sbagliata.
Molte famiglie, perciò, sostengono che questi figli sono morti per difendere la patria, facendo il loro dovere. In questo modo chiaramente vanno ad aderire alla retorica di Stato. La parte della protesta non sta venendo quindi tanto dalle famiglie coinvolte, quanto potrà in seguito venire – a detta di esperti – dalla cerchia più vasta di amici e di colleghi dei militari caduti, meno emotivamente coinvolti.
Da quel che sto dicendo si evince che non ci sono grandi reazioni: quanto meno sono nascoste. Pensiamo alla campagna di convincimento alimentata dalla chiesa ortodossa russa, al patriarca e ai sacerdoti che continuano a dire ai fedeli quanto sia giusto e glorioso morire per la patria. Il fatto che vengano continuamente offerte tali giustificazioni, d’altro canto, dice quanto ve ne sia bisogno: bisogna trovare una giustificazione ideologica – anche religiosa – a ciò che sta avvenendo in Russia.
Dall’Ucraina tornano le bare e le testimonianze dirette raccontano una guerra mal-organizzata, con comandanti che minacciano i soldati costringendoli ad andare a combattere, magari abbandonandoli. La sensazione che si muoia più per responsabilità dei comandi russi che per colpa delle armi in mano agli ucraini mi pare sempre più diffusa.
- Tra i soldati delle minoranze etniche – più esposti alla falcidia della guerra – come va?
In effetti stanno insorgendo questioni etniche a motivo della guerra. Stanno crescendo – evidentemente lontane dai riflettori – organizzazioni di protesta etnica e persino le istanze secessioniste delle repubbliche popolate dalle minoranze etniche della Federazione russa.
Abbiamo notizia di numerosi buriati e tuvani che sono scappati in Mongolia, non solo perché la Mongolia è il confine più vicino, ma anche per una certa affinità linguistica ed etnica. Province mongole stanno preparando programmi di accoglienza per i profughi delle minoranze etniche siberiane, quelle che sinora hanno pagato il prezzo più alto – in termini di vite umane – alla guerra.
Secondo dati che sono circolati, un buriato aveva una probabilità di morire in guerra superiore di 260 volte ad un moscovita. La mobilitazione dichiarata il 21 settembre aveva forse anche il senso di equilibrare un poco questo dato, mai i problemi sono evidenti.
Il coinvolgimento della Chiesa russa
- Quale assistenza la Chiesa russa ortodossa sta prestando ai soldati al fronte?
L’esercito russo è dotato della assistenza dei sacerdoti cappellani, istituzionalmente. Qualche giorno fa ho notato un filmato in cui un prete ortodosso stava battezzando soldati prima che andassero all’attacco in prima linea. Evidentemente non erano battezzati. Questa cosa già mi ha colpito.
Ma quel che più mi ha colpito è che, per il rito, il pope si sia servito di cassette di munizioni e, persino, quale riserva d’acqua, a modo di fonte battesimale, di un sacco nero normalmente usato per i corpi dei caduti: una scena di una intensa drammaticità, a sfondo di morte.
Se vi sia un ulteriore apporto di preti ortodossi volontari impegnati nella assistenza ai soldati al fronte non lo so. Conosco per certo il lavoro strettamente svolto tra esercito e chiesa ortodossa, con l’espressione di cattedre di teologia nelle accademie militari e iniziative quali le cappelle paracadutabili a beneficio delle truppe d’assalto. Nelle fiere militari – frequenti a Mosca e in altre città – viene fatto normalmente sfoggio di attrezzature religiose para-belliche.
La pace: possibile?
- Sabato scorso si è svolta in Italia, all’insegna della fraternità col popolo ucraino e col popolo russo, una grande manifestazione per la pace che, distinguendo chiaramente tra aggrediti ed aggressori, ha chiesto ai leader russo e ucraino di trattare, aiutati dalla comunità internazionale. Lei cosa ne pensa? E cosa si può fare dall’Italia?
Quel che dico qui è molto duro. Io penso che il popolo russo abbia bisogno oggi di una sconfitta militare per giungere alla caduta di questo regime e di questo sistema: una soluzione poco pacifista. Il popolo russo va aiutato a liberarsi di Putin e, insieme, a comprendere la misura delle proprie responsabilità in questa guerra.
Purtroppo, la realtà non è quella che avremmo voluto abbracciare dall’Italia, ossia che questa sia solo la guerra di Putin e non del popolo russo. Questa guerra segue altre guerre lanciate da Putin negli ultimi anni: guerre che gli hanno portato molta popolarità. Questo è un dato di fatto.
Cosa possiamo fare per il popolo russo? Penso soprattutto agli anni che verranno. Dopo questa guerra il popolo russo potrà essere aiutato, secondo me, a ritornare a certi valori, se vogliamo anche autenticamente cristiani. In questi giorni assistiamo a persone che gioiscono in Russia per gli attacchi condotti con successo alle infrastrutture civili ucraine: per me questa è una aberrazione da tutti i punti di vista: militare, politico, civile e, naturalmente, religioso. Il regime incarnato da Putin ha allontanato la gran parte della società russa dai valori umani universali.
Come si possa fare, non lo so dire in breve. Certamente servirà una intensificazione degli scambi culturali, un aiuto diretto alla società civile, una grande e duratura opera che comporti la resa dei conti col passato. È un discorso molto difficile, faticoso, amaro.
Vanno ripensate anche le responsabilità europee. Per anni il nostro rapporto con la Russia è stato informato dalla rimozione. Abbiamo pensato che si potesse tranquillamente soprassedere sulla carenza o totale mancanza di democrazia in Russia.
Tutto sommato ci andava bene una democratura – ossia una dittatura truccata di democrazia liberale di mercato – che ci fornisse gas a prezzi vantaggiosi. Questo atteggiamento va sicuramente rivisto.