La risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza varata dall’assemblea generale dell’Onu – appena approvata – è già passata nella scarsa considerazione generale: in effetti non è vincolante. Eppure, qualcosa di quel voto merita attenzione.
Austria, Cechia, Guatemala, Israele, Liberia, Micronesia, Nauru, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Stati Uniti: questo ridotto elenco di Paesi fa riflettere. Si tratta di coloro che hanno votato contro la risoluzione, approvata con 153 voti a favore, 23 astensioni e 10, appunto, contrari. Si tratta di un risultato mutato, in poco tempo, posto che il 27 ottobre scorso la richiesta di tregua ottenne 120 voti favorevoli, 14 contrari e 45 astensioni.
Tra le tante cose che sono mutate occorre tener conto non solo dell’altissimo numero di civili morti, oltre che del numero altissimo di feriti, dell’entità delle distruzioni e dell’estensione dei bombardamenti anche al sud di Gaza – ove la popolazione era stata “invitata” a rifugiarsi proprio dall’esercito israeliano – ma anche di alcune circostanziate rivelazioni circa l’uso dell’intelligenza artificiale nella pianificazione degli attacchi.
Tale nuovissimo strumento, semplificando, può facilmente individuare l’obiettivo – poniamo un miliziano di Hamas – a prescindere dal contesto in cui l’obiettivo si trovi: che sia, ad esempio, un palazzo abitato da famiglie numerose – e quindi con molti bambini.
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Secondo il Sito 972, ripreso da molte testate internazionali, ciò dipende dal fatto che, seguendo l’indicazione operativa di colpire quanti più obiettivi – intesi come miliziani di Hamas – e potendo, l’intelligenza artificiale, individuarne moltissimi simultaneamente (ad esempio attraverso la geolocalizzazione dei telefonini), il risultato è che i danni collaterali aumentano esponenzialmente: pensiamo al miliziano che rientra in famiglia e tra i figli. Interessante – e tragico – è rilevare che il sistema operativo artificiale sia stato denominato “Il Vangelo”, probabilmente in riferimento alla sua “affidabilità”.
Il numero di donne e di bambini morti si può spiegare anche così e ciò potrebbe aver convinto molti all’Onu che l’esito dell’operazione non sia solo la distruzione di Hamas. Se lo scopo di Israele è l’eliminazione, nel minor tempo, del maggior numero di miliziani operativi, oltre al contesto, non viene considerata neppure la priorità dei colpi: ad esempio, che si tratti di un capo di Hamas o di una recluta, con questo criterio, cambia nulla. «Si enfatizza il danno, non l’accuratezza», così ha detto il portavoce dell’esercito israeliano.
Poiché tutto ciò è emerso nel tempo intercorrente tra il primo e il secondo voto della assemblea dell’Onu, non si può escludere che abbia avuto il suo peso nella valutazione dei Paesi che, questa volta, hanno votato in maniera diversa.
Emergono poi segnali variegati da parte degli Stati Uniti: nelle ore appena trascorse si è riferito del presidente Joe Biden che ha invitato Israele ad una maggiore attenzione nei confronti dei civili, del suo consigliere per la sicurezza, Jake Sullivan, che ha sostenuto che l’intento di Israele è di distinguere tra Hamas – il cui orrore prodotto non va dimenticato – e la popolazione innocente, e del portavoce del consiglio per la sicurezza John Kirby, per il quale Israele ha preso misure molto accurate a protezione dei civili, misure che neppure gli Stati Uniti avrebbero preso in quelle condizioni.
Ma, sul punto, viene da sé ricordare l’accuratezza adottata dagli USA ai tempi delle sanzioni contro l’Iraq, nel 1990, quando la signora Madalaine Albright ebbe ad affermare che la morte di 500.000 bambini quali danni collaterali fosse un prezzo accettabile.
Non si può, dunque, escludere che le nuove frontiere tecnologiche, applicate a questa guerra, abbiano preoccupato, non poco, i membri dell’Onu, specie chi non sia oggi, o non si senta adeguatamente equipaggiato.
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Va poi tenuto presente che, accanto a quanto accennato, rimane il conflitto di fondo con Hezbollah, tenuto sotto controllo sin ora, ma con i miliziani sciiti impegnati a violare costantemente la risoluzione 1701, quella che ha posto fine al precedente conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006, che impedirebbe alla milizia di tenere i suoi sopra il limite del fiume Litani, a 30 chilometri dal confine: tutto il mondo sa che Hezbollah non lo ha mai fatto. L’attrito, ora, è costante e diretto e può far temere una estensione della guerra, coi rischi globali – anche economici – di cui possiamo immaginare.
Hezbollah, infatti, ha espropriato il Libano dell’unico vantaggio che aveva ottenuto dalla risoluzione 1701, ossia riottenere il controllo del confine con Israele col suo esercito. Hezbollah ha privato il Libano di una politica nazionale di difesa e certamente non intende, ora, restituirla al governo di Beirut, bensì è pronto a trattenerla a beneficio suo e dei suoi padrini iraniani. Ciò impone a Israele esibizioni militari che Hezbollah, a sua volta, definisce violazioni della stessa risoluzione.
Il tema del precipizio della guerra lungo il confine tra Libano e Israele va tenuto ben presente, così com’è. Gli americani vorrebbero mediare, ma la milizia sciita è lì a fare da deterrenza nei confronti di Israele, in nome e per conto dell’Iran. E quel confine è una carta che gli ayatollah vogliono tenere per sé, per giocarla e per essere protagonisti in un eventuale negoziato regionale.
Torno così, per concludere questa pagina del diario, alle parole di Biden, proprio in occasione del voto all’Onu: parole che sono parse auspicare o preparare uno sviluppo negoziale per il dopo di questa guerra. Tutti sanno che, in America, nel 2024, si voterà. Biden ha auspicato, nuovamente, la soluzione due popoli e due Stati: difficile da sempre, meno difficile, però, se pensata in un contesto diverso. E qui molto sta all’Iran.
La definizione dei confini terrestri a cui Israele e Libano sarebbero prossimi, col dissolvimento delle, tutto sommato, piccole dispute ancora pendenti, sarebbe la premessa. Importante, sì, ma solo una premessa. Potremo capirci qualcosa – e forse vedere una luce – se e quando l’inviato Usa tornerà a Beirut per definire il dossier.