I fatti che accadono in Iran meritano quella attenzione di cui quel popolo, da parte nostra, troppo spesso non gode. Perciò, almeno nel mio diario, voglio dar conto di quanto è accaduto: non capita spesso che una folla considerevole di iraniani tenti di accedere, nella notte di Natale, a una cattedrale: quella armena di Vank, a Esfahan.
Le persone hanno atteso a lungo per scoprire, con delusione, che la cattedrale era chiusa, posto che la Chiesa amena celebra il Natale il 6 gennaio seguendo l’antico calendario giuliano, come tutte le Chiese d’Oriente.
Eppure, la folla, di notte, era davvero notevole: sorprendente!? Gli esperti valutano il crescente interesse popolare per il Natale in Iran come un fatto da connettere al desiderio di vita e di felicità: una evidente reazione al tentativo del regime di imporre, soprattutto ai giovani, i rituali della sofferenza, delle lacrime e del dolore. Non sono espressioni esagerate. Nello sciismo ci sono rituali che prevedono di frustarsi o di ferirsi, con varie forme di dolore auto-inflitto per ricordare il martirio dell’Imam Hussein, la figura più importante nello sciismo dopo quella dell’imam Ali.
Ma questo dovrebbe accadere una volta all’anno, mentre ci sono ci sono altre tradizioni decisamente gioiose, come la festa del nuovo anno che dura diversi giorni, o del solstizio d’inverno. Eppure, queste vengono ostacolate o letteralmente impedite dalle autorità, che contano molto, invece, sul dolorismo, sull’imposizione della sofferenza e della sua continua ripetizione quale elemento che fonda la loro visione della vita, che è un’ideologia.
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Tale esaltazione del dolore – che appartiene alla tradizione sciita ma, di per sé, limitatamente ai giorni dell’Ashura, cioè della ricorrenza (vera o convenzionale non ha importanza) del martirio dell’imam Hussein, appunto -, si contrappone alle parole delle piazze: «donna, vita, libertà».
Quanto accaduto a Esfahan, dunque, ha un valore politico che aiuta a capire la valenza culturale della protesta iraniana in corso da anni. Che una Chiesa venisse letteralmente presa d’assalto, ne venisse invocata l’apertura, è una novità assoluta, che non può mancare di farci cogliere il desiderio di vita, di gioia, di libera espressione di sé, di incontro, gioioso e comunitario che nella popolazione iraniana c’è e vuole manifestarsi.
I giornali che ne hanno riferito hanno mostrato fotografie di uomini vestiti da Babbo Natale nei pressi della cattedrale. E hanno mostrato pure l’intervento delle forze dell’ordine, che sono ricorse all’uso di candelotti lacrimogeni per disperdere la folla. Né sono mancate le foto di donne iraniane che, nelle grandi città, hanno voluto farsi un selfie davanti alle vetrine che hanno esposto decorazioni natalizie tipicamente occidentali. Per dirla tutta, persino la festa di Halloween è divenuta molto popolare in Iran, come anche da noi, pur non appartenendo alla nostra tradizione.
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Ma nella manifestazione popolare di Esfahan, nulla si è notato che fosse contro i valori islamici, che peraltro confermano l’importanza del Natale nella religione: dal concepimento miracoloso di Gesù, agli episodi della vita di Gesù, che per l’Islam tutto è profeta, ma non soltanto un “normale” profeta.
Ciò che va colto – a ben vedere – è piuttosto il non più celato fastidio popolare nei confronti del khomeinismo, della sua eresia nella scelta di trasformare il culto islamico in giustificazione dell’oppressione teocratica e rigorista oltre ogni limite: non più religione della tradizione bensì ideologia totalitaria.
La guerra in corso, tuttavia, stravolge e capovolge i valori. Il naturale desiderio di vita dei popoli viene orientato a seguire gli estremismi incrementati da anni, anche dal nostro Occidente. Ha avuto molta eco quanto ha scritto il giornale israeliano Haaretz, attribuendo a Netanyahu, nel marzo del 2019, in occasione del comitato centrale del suo partito, il Likud, queste parole: «Chiunque voglia contrastare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e l’invio di denaro a Hamas». Aggiungendo: «Questo fa parte della nostra strategia, per separare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Giudea e della Samaria». Ora, non può certo sorprenderci il fatto che Hamas ha usato tutti i soldi ottenuti dal Qatar per armarsi, lasciando nella fame la sua gente.
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Torno, per finire la pagina, alla mia – non solo mia – consueta tesi: la soluzione di uno Stato palestinese in pace accanto ad Israele, è proprio quella che gli estremismi vogliono impedire.
L’estremismo dei mullah vuole impedirlo col dolorismo ideologico che alimenta il terrorismo: si può soffrire e morire, perché il martirio è per la giustizia assoluta. A Esfahan, la gente che voleva entrare nella chiesa ha detto, con un atto, un’altra cosa: la giustizia è un cammino da costruire insieme ad altri, nel mondo, con un amore profondo per la vita.
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