Le esplosioni avvenute in Iran durante le celebrazioni di Qassem Soleimani, con più di cento morti e chissà quanti feriti, fanno da schermo impressionante – anche sulle mie pagine di diario della guerra – a molte altre notizie, riguardo allo stesso Paese–chiave, l’Iran, ormai a ridosso di importantissime elezioni parlamentari.
Cerco, tuttavia, di non lasciar cadere nulla dal complicatissimo quadro mediorientale. La rivendicazione dell’attentato da parte dello Stato Islamico – la cui attendibilità resta comunque da dimostrare sino in fondo – segna un passaggio, affatto definitivo, nella torbida storia di tale organizzazione terroristica, già data mille volte per finita, e continuamente risorgente dalle sue ceneri, perché le braci accese sono nascoste sin dalla sua nascita. Così la vediamo, ogni volta, mutare e tornare in diversi scenari, sempre per destabilizzare, sempre con ferocia stragista, inquietante.
Nel comunicato di rivendicazione – è da notare – oltre a inveire, in maniera scontata, contro Israele e i «crociati» dell’Occidente, lo Stato islamico critica pure i gruppi palestinesi alleati dell’Iran sciita, per riaccendere, evidentemente, l’odio tra musulmani sunniti e sciiti, di cui si alimenta, da sempre: su questo nuovo – o per niente nuovo Stato Islamico di genere trasformista – nutro perciò tanti dubbi, che affondano nelle radici occulte della storia, dai tempi del sedicente califfo al-Baghdadi. La vicinanza tra l’attentato e le elezioni, di cui i riformisti stanno già chiedendo il rinvio, fa presagire il festival degli ultraconservatori. E colpisce.
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Ritengo, però, opportuno soffermarmi su qualche dettaglio del discorso tenuto poche ore fa dal temutissimo capo di Hezbollah in Libano, Hasan Nasrallah, dopo l’eliminazione, a Beirut Sud – il settore di città in cui vive e di cui ha il pieno controllo – del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri.
Il discorso è stato seguito da tutto il mondo con apprensione – come ogni volta che, del resto, apre bocca – per, poi, essere, anche questa volta, rapidamente archiviato, ma con un certo sospiro di sollievo, perché, ancora, non ha annunciato il terribile attacco frontale contro il nemico, Israele. Ma già ha annunciato che tornerà ad esprimersi sulla esecuzione di al-Arouri e le sue gravi conseguenze: la propaganda non si ferma neppure un attimo. E pure la propaganda non è innocua, mai.
Il discorso di Nasrallah è comunque da sezionare con il bisturi e le pinze del chirurgo, perché, ad esempio, ha presentato il pogrom del 7 ottobre quale azione da attribuirsi – tutta – ad Hamas, che sta producendo «ottimi» risultati, perché Israele non sta conseguendo i suoi obiettivi militari e «gli Stati Uniti sono alle corde», mentre il consenso popolare di Hamas è alle stelle.
Perché, dunque, Nasrallah con i suoi di Hezbollah non è ancora intervenuto al fianco di Hamas? Perché – ha spiegato – le forze della resistenza si consultano tra loro, certamente, ma agiscono autonomamente, per proprio conto, secondo gli obiettivi prioritari dei rispettivi popoli. Per Hezbollah la priorità è dimostrare, sì, con le armi, tutto il sostegno dovuto al popolo palestinese di Gaza – definito, questo, alla lettera, un «dovere religioso» – ma pur sempre nei limiti richiesti dal popolo libanese.
Dunque, per certi versi, Nasrallah non ha detto niente che non avesse già detto: l’azione del 7 ottobre è tutta farina del sacco di Hamas e Hezbollah non può fare di più, perché il Libano è un Paese la cui popolazione è stremata. Ma allora «il fronte della resistenza», sempre così definito da Nasrallah, non è un cartello di forze armate che vanno dall’Iraq a Gaza, bensì un insieme di forze che provano empatia l’una per l’altra, pur rispondendo alle esigenze dei diversi popoli di cui sarebbero l’espressione. È una certa novità rispetto a quanto da lui sempre affermato.
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Una novità che ne ha fatta emergere un’altra: l’azione del 7 ottobre – ha affermato – ha avuto il grande merito di far saltare o bloccare la normalizzazione dei rapporti tra certi Paesi arabi ed Israele, che era già in corso.
Ciò che Nasrallah non spiega è perché mai tale normalizzazione non sarebbe nell’interesse pure dei popoli libanese – che lui finge di rappresentare – iracheno e dello stesso popolo palestinese. I sondaggi d’opinione, realizzati a Gaza poco prima del pogrom del 7 ottobre, dicevano, infatti, proprio il contrario di quanto supposto da Nasrallah: la vasta maggioranza dell’opinione pubblica desiderava i due Stati – israeliano e palestinese – in pacifica coesistenza, territorialmente, uno accanto all’altro.
La normalizzazione tra Paesi arabi ed Israele avrebbe potuto finalmente facilitare lo sbocco dei due popoli e due Stati? Nessuno lo sa. Certamente sarebbe rimasta un’ipotesi molto difficile da realizzare. Ma, ora, quel che è certo, è che l’ipotesi migliore è stata allontanata, secondo i disegni di figure come Nasrallah.
Nasrallah, dunque, dovrebbe avere la franchezza di ammettere che il consenso delle masse per Hamas è effettivamente aumentato e sta montando, anche e soprattutto per effetto delle proporzioni immani della reazione militare israeliana. Cosa possono pensare i palestinesi coi loro fratelli delle tesi dei ministri israeliani più estremisti – benché, ora, respinte dal ministro della difesa, Gallant – che intendono trasferirli dalle terre in cui sono nati ad altre parti sconosciute del mondo? Se lo avesse riconosciuto avrebbe dovuto pure ammettere che queste tesi, estremiste e inquietanti, emergono perché c’è stato il 7 ottobre, a lui tanto caro.
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Come ho argomentato più volte su queste pagine, gli opposti estremismi, esclusivi, si rafforzano vicendevolmente. Mentre i moderati pagano – amaramente – il prezzo di non aver saputo elaborare, negli anni, una loro politica, inclusiva. Perché il continuo sabotaggio, iraniano – di Hezbollah e di Hamas – ha ottenuto la sua parte, a suon di attentati dinamitardi e di sangue, facendo deragliare ogni negoziato di pace.
La pace sarebbe stata possibile, lo Stato palestinese sarebbe stato possibile, un futuro diverso sarebbe stato possibile – e condiviso dai popoli – col negoziato, facendo sperimentare benessere alle popolazioni: che è la cosa che più conta. Ma Hezbollah e Hamas hanno sabotato ogni compromesso, parola che loro detestano: gli hanno opposto attentati e provocazioni – senza alcuna considerazione delle condizioni di vita dei loro popoli – come del resto hanno fatto gli estremisti israeliani, specie dall’assassino di Rabin in poi.
Nasrallah si presenta ora al mondo arabo – e al mondo intero – quale leader del fronte del rifiuto, così che il mondo debba pendere, ogni volta, come poche ore fa, dalle sue labbra. Per lui – come tanto tempo fa in ciò che fu definito vecchio il «fronte del rifiuto arabo» – ogni negoziato è tradimento. La sola differenza è che il fronte del rifiuto di un tempo era rappresentato soprattutto dall’estremismo ideologico figlio del panarabismo, mentre oggi è incarnato dalle forze che vogliono islamizzare la questione palestinese.
Quindi, la situazione è persino peggiore, perché ora è ammantata della sacralità che viene dalla religione. L’agenda di Nasrallah non è solo in pelle imperiale, bensì pure teocratica e di tono apocalittico, ovviamente khomeinista iraniana.
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