Già la lancetta del barometro, all’ONU, non indicava «buon tempo»: quando mai, oggi?
La Francia aveva annunciato la preparazione di una sua proposta di risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza, prima che venisse votata quella avanzata dagli Stati Uniti. Era, probabilmente, la prima avvisaglia di una «fumata» che sarebbe stata, poi, «nera».
In un report si dà conto dei negoziati tra i membri del Consiglio circa la proposta americana, da cui si trae il passaggio decisivo, così come è stato presentato dopo i diversi cambiamenti. Questa la mia traduzione dall’inglese:
«Dopo ulteriori negoziati, gli Stati Uniti hanno riformulato questo paragrafo per affermare che il Consiglio stabilisce l’imperativo di un cessate il fuoco immediato e duraturo per proteggere i civili di tutte le parti e per consentire la fornitura della assistenza umanitaria essenziale, aggiungendo che, a tal fine, il Consiglio sostiene inequivocabilmente gli sforzi diplomatici internazionali in corso per garantire tale cessate il fuoco in connessione con il rilascio di tutti gli ostaggi (israeliani) rimasti».
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Le riserve derivavano dal linguaggio scelto: non netto, secondo i critici. Il voto ha visto 11 Paesi favorevoli, Russia e Cina opposti col veto, il voto contrario dell’Algeria e l’astensione della Guyana.
Secondo il delegato russo, la risoluzione avrebbe offerto il «disco verde» all’operazione militare israeliana di terra anche contro Rafah, l’ultimo spicchio di Gaza prima dell’Egitto ove, attualmente, si trovano più di un milione di palestinesi sfollati.
Mentre si votava, il segretario di stato americano Blinken, si stava confrontando, in un colloquio da lui definito «candido», col premier israeliano, proprio sull’operazione militare a Rafah: il dissenso, al riguardo, è emerso, appunto, «trasparente» e confermato dai diretti interessati.
Nelle prossime ore una delegazione israeliana è attesa a Washington per discutere all’infinito di Rafah. Blinken continua a sostenere che è giusto per Israele sconfiggere Hamas, ma che ci sarebbero altre strade, rispetto alla azione militare di terra, per riuscirci. Netanyahu ha già risposto di dover procedere, nel caso, anche da solo.
Dunque, all’ONU, si discute la proposta francese, annunciata dallo stesso Macron, che ha parlato di «significativo cambio di posizione di Washington», dopo i precedenti veti. Macron spera che la diplomazia – quella da lui promossa – sappia trovare le parole giuste per consentire di sbloccare l’impasse.
È importante comunque notare come, mentre in un primo momento si era parlato di una proposta francese con l’ausilio dell’Algeria – Paese che siede nel Consiglio e viene solitamente associato ai «duri» – Macron abbia parlato di un raccordo attuale con gli Emirati Arabi Uniti e con la Giordania, nella preparazione di un testo che riesca a convincere Mosca e Pechino. Il voto è previsto per lunedì prossimo, ma l’impressione dei commentatori è che Washington non aderirà.
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Per una valutazione del punto in cui ci troviamo in questa guerra, occorre considerare tanti altri elementi. Ad esempio: un alto diplomatico di Pechino è stato inviato in Medio Oriente e, proprio nella giornata del voto sulla proposta americana, ha incontrato a Doha il capo di Hamas, Ismail Haniye.
Questi ha destato un po’ di gossip annunciando proprio nei giorni passati il suo quarto matrimonio (le cronache riferiscono che la moglie ha meno della metà dei suoi anni). Ma non sono state certo le felicitazioni nunziali ad aver determinato l’incontro.
La domanda seria è: Pechino si sta avvicinando ad Hamas? Autorevoli analisti rimarcano l’evento, ma avanzano pure un’altra ipotesi: Pechino intende operare nello scenario mediorientale, stabilendo relazioni dirette con tutti i protagonisti della crisi, così rilevante anche per i suoi interessi.
La mossa cinese va letta, a mio avviso, anche alla luce dei più recenti sviluppi: i miliziani yemeniti – che da settimane attaccano i mercantili nel Mar Rosso sostenendo di farlo per danneggiare Israele – hanno assicurato a Russia e Cina di non voler prendere di mira le loro navi. I buoni uffici iraniani devono aver favorito l’impegno degli Houti – da loro controllati – in tal senso.
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Parallelamente, proseguono i negoziati in Qatar: pare per il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e per un cessate il fuoco della durata di sei settimane. Che si continui a trattare è, ovviamente, un buon segno. Ma è passato davvero tanto – troppo – tempo e ancora non si intravede la luce in fondo al tunnel.
Non posso tacere la cupa previsione di uno dei più autorevoli studiosi del Medio Oriente che si conosca – ossia Gilles Kepel – che, in una conversazione col Corriere della Sera, si è detto sicuro che l’incendio si estenderà al Libano, cioè ad Hezbollah.
Eppure, vedo che i giornali di Beirut raccontano una popolazione libanese convinta che ciò non accadrà. Ma, forse, solo per la forza di autoconvinzione che «il peggio del peggio» non debba e non possa mai accadere: ciò non mi sorprende, se penso alla situazione di catastrofe economica e sociale – testimoniata dagli amici – in cui, da anni, versa tutto il Paese.
A sorprendermi è semmai il livello del confronto politico libanese, quasi del tutto autoreferenziale. Ci si attarda in casa a litigare per beghe di palazzo: materia estesa per altre pagine di diario, non solo del Medioriente.