Diario di guerra /42. La risoluzione ONU

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La risoluzione Onu non è riuscita a portare un barlume di pace a Gaza: il cessate il fuoco non c’è, così come non c’è il rilascio degli ostaggi israeliani.

Nelle ore in cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU votava l’attesa – ma già da tutti disattesa – risoluzione su Gaza, un giornale libanese titolava il suo servizio «E il fronte nord?», ove il fronte nord, è quello degli incerti confini tra Israele e Libano. Il punto di domanda è riferibile all’incertezza, ma anche al dato di fatto che il Libano ha ceduto la sua strategia nazionale di difesa alla milizia filoiraniana, Hezbollah.

La risoluzione Onu non è riuscita a portare un barlume di pace a Gaza: il cessate il fuoco non c’è, così come non c’è il rilascio degli ostaggi israeliani. Sul lato nord le cose non vanno diversamente, anzi: le incursioni israeliane si fanno più profonde, quelli di Hezbollah più potenti.

Eppure, i libanesi non sembrano temere un imminente scenario di guerra aperta. Sebbene i timori al riguardo appaiano fondati – e sovente citati da tanti osservatori – il pensiero prevalente in Libano è che il rischio peggiore sia passato.

Forse, la spiegazione si trova nella visita che a Beirut ha fatto il potente «uomo dell’esportazione della rivoluzione iraniana», ossia il capo dei pasdaran, il generale Qaani. Per la precisione, lui guida la Brigata al Quds, che è il braccio internazionale, operativo all’estero dei pasdaran.

Nel recente febbraio, lui ha fatto uso, pubblicamente, di molte parole chiare, interloquendo col suo più potente terminale in Medio Oriente: il capo dell’Hezbollah, Nasrallah. Ha fatto capire di non volere ora un conflitto diretto con Israele.

È noto che ogni azione militare di Hezbollah viene attribuita alla volontà di Tehran. Nasrallah non ha risposto «obbedisco», ma tutti hanno capito che alle parole di Qaani sarebbe stato difficile contravvenire.

Lo scenario rimane, tuttavia, assai sospeso, quasi rimosso dai libanesi: non vogliono credere che alcuno possa aver interesse ad uno scontro che sarebbe il più grave tra quelli possibili.

Le cronache delle ultime ore raccontano di attacchi e contrattacchi, a suon di ordigni, sempre più forti. Le fiamme nei giorni scorsi sono arrivate nella valle della Beqaa, a Hermel e Baalbeck, non proprio nel sud del Libano, dove Hezbollah è notoriamente presente in forza.

Questa mattina – mercoledì – Hezbollah ha effettuato un lancio di almeno 30 missili verso la cittadina israeliana di frontiera di Kyryat Shmona; lancio che avrebbe provocato la morte di un civile israeliano. La Forza di Difesa di Gerusalemme avrebbe risposto con raid aerei puntati sulla valle della Bekaa, in particolare su obiettivi Hezbollah e della Jihad Islamica.

Così non sorprende che il Libano – prostrato nel suo disastroso stato economico e nella sua paralisi istituzionale che ormai supera i 18 mesi – si voglia convincere che la guerra non possa essere lo scenario plausibile. Salvo, poi, allarmarsi col titolo «Escalation allarmante nel sud»: letto, in formulazioni diverse, su diversi siti.

Servirebbe un accordo, mediato dalla diplomazia mondiale. Su cosa?

Il punto di cui si discute da tempo è la presenza di Hezbollah nei 30 chilometri a nord del confine con Israele, cioè fino all’altezza del fiume Litani. La risoluzione dell’ONU approvata al termine della guerra del 2006, non la consente. Nel testo, infatti, è scritto che vanno adottate «misure di sicurezza atte a prevenire la ripresa delle ostilità̀, che preveda l’istituzione, nella zona compresa tra la Linea Blu e il fiume Litani, un’area priva di personale armato, posizioni e armi che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze UNIFIL come previsto dal paragrafo 11, che operano nella zona».

Ma la risoluzione chiedeva anche altro. Ad esempio, le iniziative del Segretario Generale dell’ONU per «la demarcazione dei confini internazionali del Libano, specialmente in quelle aree dove il confine è soggetto a dispute o incerto, compresa l’area delle fattorie di Shebaa (occupate da Israele, ndr), e la presentazione delle proposte al Consiglio di Sicurezza entro trenta giorni»!

Posto che Hezbollah doveva ritirarsi – dal 2006 – ma non lo ha mai fatto, oggi Israele lo chiede. Si è sperato di ottenere questo ritiro in cambio della migliore definizione del confine. Poteva essere una buona occasione di copertura. Ma non è avvenuto. Occorre la volontà.

Ci stava lavorando la diplomazia americana, che qualche risultato l’aveva ottenuto, ad esempio andando a definire il confine marittimo tra Israele e Hezbollah. Allora, la trivellazione dei giacimenti mediterranei – che riguarda ed interessa entrambi i paesi – aveva indotto Hezbollah a ritenere che, almeno sul mare, la pace si potesse fare. Con la guerra di Gaza, è divenuto più difficile per Hezbollah accettare il ritiro di diversi chilometri dal confine terrestre.

La visita a Beirut di Giorgia Meloni, proprio in queste ore, potrebbe risultare a favore della ricerca di un compromesso. Ma si sta già apprendendo che Hezbollah ha respinto la proposta francese, ritenendola sbilanciata verso Israele.

Come è possibile notare, ancora una volta, il negoziato coinvolge solo formalmente il governo libanese: le risposte vengono direttamente da Hezbollah. Il premier Miqati, – che da un anno e mezzo sta lì solo per il disbrigo degli affari correnti – sì e no viene informato.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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