Diario di guerra /53. Libano e profughi siriani

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Non mi ha sorpreso, ma mi ha comunque amareggiato l’omelia pronunciata domenica 12 maggio dal patriarca maronita – il cardinale Beshara Rai – dedicata soprattutto alla questione dei profughi siriani in Libano.

Ha chiarito – e fondamentalmente corretto – quanto anch’io avevo qui scritto a carico dell’Europa. Il patriarca, infatti, ha duramente attaccato l’Europa perché si rifiuterebbe di «cooperare con il Libano» sulla questione dei profughi siriani, sollecitando i libanesi a «unirsi in favore del rimpatrio dei profughi siriani nel loro paese e di non soccombere alle sollecitazioni europee tese a mantenerli in Libano per motivi politici funzionali ai loro interessi».

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Chiarisco per chi non abbia letto la precedente pagina del diario. Il Libano è un Paese economicamente al collasso, con una popolazione autoctona di circa 5 milioni di persone ed ha, sul suo territorio, circa un milione e mezzo, o più, di profughi siriani. Sono fuggiti, o sono stati cacciati dalla Siria dal regime di Assad che li ritiene infedeli in quanto sunniti. In Siria la larga maggioranza della popolazione è – o probabilmente era – sunnita; il regime di Assad, invece, è espressione tribale di una piccola minoranza, nobile e non tutta a lui fedele: gli alawiti.

Da quando il regime ha ripreso il controllo della cosiddetta «Siria utile» – espressione dello stesso Assad – cioè, dei territori non desertici della Siria, molti ritengono che i profughi siriani possano tornare in patria in sicurezza. Non di questo parere è l’Alto Commissariato per i Rifugiati, per il quale in Siria non sussistono tali condizioni. Ci sono evidenze comprovate che alcuni profughi siriani, rimpatriati, sono stati inghiottiti nel buio della Siria.

Posto che il Libano, da quando nel 2012 è cominciata la grande fuga o la grande pulizia etnico-confessionale della Siria, non ha mai voluto che i rifugiati fossero in tendopoli gestite dall’ONU, questi vivono in campi di fortuna, ove pagano l’affitto ai proprietari che, evidentemente, trovano più conveniente questo genere di profitto rispetto alla produzione di patate o cetrioli.

Ma l’emergenza è oggettiva, gravissima, l’economia nazionale da quattro anni è al collasso: il Libano da Paese affluente è diventato un Paese precipitato nella miseria. Nella gravità della situazione – che la guerra di Gaza non fa che precipitare – i siriani sono, da una parte, vittime di evidenti discriminazioni, a volte marcatamente razziste, dall’altra, cadono nella rete dell’illegalità e della criminalità comune. Anche il terrorismo è un’opzione che – per fame e per soldi – non può essere esclusa.

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In queste condizioni, autenticamente emergenziali, l’Europa ha portato a Beirut, per mano di Ursula von der Leyen, un dono triennale di un miliardo di dollari per scuola, sanità e sicurezza. Siccome il premier Miqati ha detto che il dono è incondizionato – e lo ha detto proprio nelle ore in cui si studiava come rimpatriare i rifugiati siriani – molti, me compreso, avevano dedotto che per Bruxelles anche questo fosse possibile, coi nostri soldi.

Le parole del patriarca dicono il contrario: l’Europa ha chiesto – questo ora è ufficiale – di impedire ai profughi di partire clandestinamente verso le sue coste. Ma, in quanto al rimpatrio in Siria, non ritiene di sfidare la posizione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite: non ci sono le condizioni di sicurezza per riportare i rifugiati siriani in Siria. Questo emerge oggi da quanto scrivono i giornali libanesi dei diversi orientamenti.

Ma le cose intanto procedono: i partiti cristiani, che avevano annunciato che avrebbero chiesto di rifiutare il dono europeo se fosse stato condizionato a trasformare i libanesi in controllori della permanenza dei siriani sul loro territorio, stanno venendo a più miti consigli. Al voto in Parlamento, mercoledì prossimo, secondo la stampa francofona libanese (molto addentro alle comunità cristiane) voteranno a favore dell’accettazione del dono, con qualche distinguo.

Il primo ministro, il musulmano miliardario e pragmatico Miqati, ha parlato di polemiche strumentali e populiste. La rappresentanza europea ha cercato di diluire il tutto ricordando l’imminente conferenza su Il futuro della Siria.  Lui vorrebbe risolvere il problema inasprendo la disciplina per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno.

Ma il patriarca, appunto, ancora domenica, ha ricordato che, a suo avviso, in Siria ci sarebbero ampie zone ove i profughi potrebbero rientrare in sicurezza. Si tratta evidentemente di quelle zone desertiche dove Assad non riesce a governare. Chi si era già espresso per questa soluzione – facendo ora un po’ di retromarcia – è l’autorevole esponente politico maronita Samir Geagea, per altro acerrimo nemico del regime siriano: per lui si potrebbero mandare i rifugiati siriani filo Assad a Damasco, i  filo-islamisti nel profondo nord, a Idlib, dove comandano i miliziani fondamentalisti, e i siriani normali nelle zone dell’est siriano, dove comandano i curdi. Questa idea mi sembra ridurre i rifugiati a pacchi postali, da suddividere secondo il colore dell’imballaggio.

Vorrei però chiedere al patriarca come mai i maroniti – che in Siria c’erano – ora che Assad ha vinto la sua guerra, non rientrano in patria? Forse perché, con uno stipendio da pubblico dipendente, in Siria uno ci compra al massimo un chilo di zucchero, ovvero perché ognuno è esposto al rischio di essere taglieggiato, depredato e nel caso arrestato e torturato?

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Intendiamoci: quello dei rifugiati è un gravissimo problema in Libano. Non può essere ignorato. Ma diversi leader cristiani di quel Paese (e alcune Chiese) sarebbero più credibili se, ponendolo, cominciassero a riconoscere l’errore epocale commesso sostenendo Assad e il suo stato criminale.

Certo: il Libano non riesce, nelle odierne condizioni, a sopportare un peso enorme come questo, mentre soffre per terribili ferite e per la guerra in corso, che crea altri sfollati interni, libanesi, che non possono più vivere al sud, in un territorio reso invivibile dai bombardamenti quotidiani.

Ci sono molti siriani che sono arrivati in Libano dopo la fase più cruenta della guerra di Siria, perché là non si poteva neppure più sopravvivere. Col tempo sono aumentati di numero, perché anche i profughi fanno i figli. Togliere comunque e progressivamente ai siriani, al di là dei motivi del loro espatrio, il permesso di soggiorno che gli consente di restare non illegalmente – come nei fatti si sta cercando di fare – oltre che ingiusto aggrava (o aggraverebbe) il problema, allargando e non prosciugando il mondo dell’illegalità.

Io non ho la soluzione. Da giornalista cerco di presentare l’evidenza e cioè che la Siria è l’enorme buco nero formatosi nel Medioriente, molto più popoloso della Libia. La Siria oggi è uno snodo mondiale di armi e droga. Chiederei alle Chiese cristiane di far capire al mondo – e in primo luogo all’Europa – quali sono i buchi neri in cui si genera quello che chiamo il nichilismo islamico.

Rimuovere dall’agenda politica internazionale il problema Assad e la sua banda di predoni – persino riabilitarlo – è inaccettabile per chiunque non voglia accettare semplicemente il male.

Invito a riflettere un attimo: come mai l’Egitto – sino ad ora fedelissimo alleato dell’Occidente – dinnanzi a Rafah e alla nuova offensiva israeliana – ha deciso di unirsi al Sud Africa nella causa intentata davanti alla Corte di Giustizia Internazionale contro Israele? Ritengo che l’Egitto tema che i palestinesi di Gaza diventino rifugiati nel Sinai, così come i siriani in Libano, in Turchia, in Giordania e in altri Paesi ancora.

Stiamo vivendo tra immani tragedie. E l’angolo di mondo di cui stiamo parlando ha, per vocazione storica, di essere la casa del vivere insieme oppure di essere il suo punto di conflagrazione.  Meglio pensarci bene.

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