Due linee politiche, ma soprattutto culturali, si delineano sempre più chiaramente nel mondo islamico mentre il conflitto infuria a Gaza. Nel momento in cui scrivo questa pagina del diario, l’atteso accordo sul rilascio di una cinquantina di ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre e − così almeno sembra − su alcuni giorni di cessate il fuoco rimane ancora «in definizione».
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La prima linea è quella dei fondamentalisti ed è stata riassunta dall’ayatollah Khamenei domenica scorsa. Presentando al mondo il nuovo missile ipersonico «Fattah II», a Tehran, insieme ai vertici dei pasdaran, la guida spirituale della rivoluzione iraniana, dal suo punto di vista, ha espresso quanto, ormai, sia evidente il fallimento di Israele: «l’Occidente non riesce a realizzare i suoi programmi». Dunque, per lui, l’azione di Hamas, da subito «lodata», espone Israele al fallimento: e con Israele fallisce tutto l’Occidente, in primis, ovviamente, falliscono gli Stati Uniti.
Il contesto in cui Khamenei ha voluto pronunciare il suo discorso è molto significativo. Nessuno sa, con precisione, cosa differenzi il missile «Fattah II» dal «Fattah I»: di certo, è stato presentato senza che sia mai stato testato; è un missile capace di viaggiare a una velocità cinque volte superiore a quella del suono, in grado di percorrere e colpire sino a 1.400 chilometri di distanza. Ma se non tutto è chiaro sulla «balistica» e sulla reale operatività del missile, il contesto bellico e bellicoso è eloquente.
L’altra linea è rappresentata dal principe saudita Turki bin Faysal: oggi, questi, è senza un incarico ufficiale, ma è a tutti noto in quanto ex capo dell’intelligence saudita e ambasciatore a Washington, autorevolissimo ministro per lunghi anni. È lui ad aver scritto «(in questa guerra) non ci sono eroi», ad aver condannato l’azione di Hamas così come la reazione di Israele, con le sue «troppe» vittime civili.
In queste pochissime parole così come nelle poche parole di Khamanei – tutte qui riprese pressoché testualmente – stanno gli estremi a cui si aggregano le numerose posizioni di corollario.
Sicuramente complementare alla visione del principe saudita è la dichiarazione del principe della corona e capo del governo del Bahrein, Salam bin Hamad: il primo leader che, dagli splendidi palazzi arabi, abbia condannato Hamas e la reazione di Israele con le sue vittime civili, chiedendo un cessate il fuoco che dovrebbe portare ad un negoziato «sensato», e cioè che porti verso la solita soluzione «due Popoli per due Stati».
A corollario della posizione di Khamenei sta, invece, quanto sta propagando il suo «megafono», ossia il proprietario del giornale Kayan, Hossein Shariatmadar, per il quale chi parla dei «due Stati» è un traditore della causa: in tale visione qualsiasi tentativo di compromesso è sempre e comunque un tradimento; quindi, di per sé, è impossibile, logicamente, capire perché chi appartiene allo stesso «campo» chieda il cessate il fuoco. Per questi, le vittime a motivo della «giusta e santa causa», sono martiri che avvicinano il momento supremo della vittoria: perché, allora, vogliono il cessate il fuoco?
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Non mancano altri ciechi estremismi: quello che, in Israele, sta rifiutando ogni possibile compromesso. C’è da dire che questo estremismo è più coerente nel negare qualsiasi disponibilità ad un cessate il fuoco. Dunque, le parti già lontanissime, si possono allontanare sempre più, senza un «domani». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, la Knesset, ha affermato che «è ora di bruciare Gaza» e il deputato Tzvika Fogel è arrivato ad accusare i parenti degli ostaggi di rappresentare più Hamas che Israele.
Nel quadro tratteggiato, vado, tuttavia, alla ricerca di qualche parola a cui potermi ancora aggrappare, con un po’ di fiducia. Il passo più significativo dell’intervento del principe saudita Turki bin Faysal è stato quello in cui ha affermato, più o meno, che tutti devono ammettere le proprie colpe per il fatto che la ricerca del compromesso non abbia fatto progressi da oltre vent’anni ad oggi: discorso critico su tutti, quindi anche autocritico. Questa è la novità che io vedo. Ed è una novità che imporrebbe a tutti i campi di fare i conti con la propria storia e con le proprie debolezze, con gli opportunismi che lo stesso bin Faysal incarna, essendo stato, in anni cruciali, figura di primo piano di un Paese decisivo del panorama mediorientale come l’Arabia.
A ben leggere e cercare nei giornali arabi, una sorpresa viene pure dal ministro degli Esteri iracheno, Fuad Hussein che, d’ufficio, deve fare da eco al campo iraniano. Ebbene, in un’intervista «fuori dal coro» Hussein ha sostanzialmente detto: «speriamo che gli americani riescano a fermare Israele, altrimenti questa guerra può bruciarci tutti». Il riconoscimento, agli americani, di un possibile ruolo positivo è davvero inusuale per chi fa i conti, ogni giorno, con Tehran. Prendiamo, allora, quel poco che ci dica ove si possa presto, auspicabilmente, arrivare.
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Al centro dell’attuale scenario pongo, perciò, con fiducia, la determinazione di papa Francesco di ricevere domani – mercoledì 22 – alcuni parenti degli ostaggi israeliani e alcuni parenti dei palestinesi martoriati a Gaza. L’evento non è importante per la sua presunta «equidistanza», semmai per la sollecitudine di trovare un tempo e un modo per parlarsi da umani, forse da credenti. Il terreno è quello del reciproco riconoscimento quali vittime innocenti, quali sono bambini, donne, anziani…
Ho usato la parola «compromesso»: per me è la più nobile, anche davanti alle più alte idealità. Solo il compromesso può costituire il punto possibile per ripartire: e questo punto arriva dalla comune, lancinante, percezione del dolore che fa, «naturalmente», passare tutto il resto in secondo piano.
Francesco vuol toccare quel punto con la scelta di ricevere, sebbene in momenti separati, israeliani e palestinesi, nello stesso giorno, nello stesso posto, accogliente per tutti.
Come ho avuto modo più volte di scrivere qui − da laico − a me sembra che non vi sia un’altra autorità morale globale, in un momento così difficile e delicato. Solo Francesco può e, forse, deve osare, su una pista sempre più stretta e difficile. Sinceramente a me sembra auspicabile che, per quanto possa, ce la faccia: almeno a contribuire!