Diario di guerra /24

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diario di guerra

In questa nuova pagina del diario ricordo i miei studi: agosto 1948, un grande intellettuale arabo, cristiano ortodosso, pubblicava un libro che ha fatto storia; oggi è quasi introvabile, anche in inglese. Il nome dell’autore è Kostantine Zurayek.

Per recuperare ciò che conta oggi di quell’opera, voglio partire dalla conferenza stampa di poche ore fa del Segretario di Stato americano, in Israele, nel momento in cui ha ottenuto soltanto un «no», formale, dal governo israeliano circa la richiesta di alcuni ministri di favorire il trasferimento dei palestinesi da Gaza: Blinken non ha ottenuto molto, posto che il ministro delle finanze israeliano ha definito i palestinesi «due milioni di nazisti», ma ha potuto, almeno, tirare un mezzo sospiro di sollievo.

La cosa importante che ha detto il Segretario americano è che anche i palestinesi stanno soffrendo, e parecchio. Che gli israeliani stiano soffrendo tanto – e cosa abbia significato per loro, individualmente e collettivamente, il 7 ottobre – lo ha aveva già detto da subito e lo ha, giustamente, ribadito. Ma ha voluto fare ben presente anche la sofferenza dei palestinesi. Questo, per me, ha valore, perché tende ad umanizzare la rappresentazione dell’altro -palestinese – e quindi ad indicare una via d’uscita.

Chi decide le strategie militari – da una parte e dall’altra – lo sa? Hamas non appare preoccuparsene: sta proprio qui il punto – rilevante – del libro di cui ho il preciso ricordo.

Chi dice che il 7 ottobre ha riportato all’attenzione del mondo la questione palestinese, non tiene conto del fatto che i suoi esiti stanno persino legittimando la discussione attorno al trasferimento del popolo palestinese, non solo da Israele, ma da tutta la Palestina storica. Questa è un’assoluta novità. Non sto dicendo che ciò accadrà, sebbene a Gaza, oggi, si viva già, in pratica, da nomadi. Ma è un dato di fatto: se ne sta parlando, apertamente.

Se, in alcuni, la tentazione di espellere tutti i palestinesi da Israele c’è stata, per via dei timori demografici, è un fatto che un premier israeliano, Ehud Olmert, fosse pure pronto ad accettare uno Stato palestinese su quasi tutto il territorio della Cisgiordania, a condizioni ritenute, poi, non accettabili, comunque, da Abu Mazen. Il 7 ottobre sta producendo, dunque, l’effetto opposto a precedenti traumi: lo Stato palestinese si allontana. Blinken lo propone ancora, ma non può dire che Netanyahu abbia fatto qualche passo in tal senso.

I palestinesi soffrono ed Hamas aggrava le loro sofferenze: cerco di spiegare meglio, avvalendomi dell’opera di Zurayek.

Invito a scavare nella storia di Gaza. Dopo la guerra del ’48 – e sino a quella del ’67 – Gaza è stata annessa all’Egitto. Ciò dimostra che la guerra del ’48 – per impedire la nascita dello Stato israeliano da parte di sette Paesi arabi – era finalizzata al controllo di quel territorio, non certamente alla costruzione di uno Stato palestinese, autonomo. Gli arabi persero rovinosamente: ecco la catastrofe palestinese, la nakba costantemente evocata dai palestinesi e da tutta la narrazione araba. E per i palestinesi fu davvero una catastrofe, con villaggi distrutti e famiglie espulse. Molti “nuovi storici” israeliani hanno contribuito a documentare la nabka con le loro opere, riconoscendo le sofferenze palestinesi e conferendo legittimità morale al negoziato di pace.

L’uomo che coniò la definizione – nabka appunto – fu proprio Kostantine Zurayek, ministro e diplomatico, cristiano ortodosso siriano. Il titolo del libro a cui ho accennato è Il significato della Nakba, pubblicato a Beirut nel 1948. Ciò di cui tratta, in primo luogo, è la catastrofe militare di sette eserciti arabi, incapaci di prevalere di fronte ad uno solo, perché tra loro divisi, disorganizzati, impresentabili.

Zurayek, da panarabista convinto, riteneva che il mondo arabo dovesse essere, politicamente ed economicamente, unito. Se si fossero anteposti gli interessi nazionali sarebbe stata la fine. L’ulteriore tragedia dei palestinesi, a suo avviso, sarebbe stata quella di tornare e vivere sotto i sionisti, ma proprio questa è divenuta la condizione che gli arabi hanno posto per firmare il cessate il fuoco. Il diritto al ritorno, infatti, è diventato la precondizione per negoziare con Israele, sino ad oggi.

Zurayek avversava la nascita dello Stato di Israele, ma in lui era chiaro che gli arabi avrebbero dovuto avversare il sionismo, non gli ebrei e l’ebraismo, anche nella consapevolezza delle loro passate sofferenze e discriminazioni nel mondo occidentale. Quindi proponeva che gli arabi – dopo secoli di colonizzazione – introducessero nel loro sistema politico una netta separazione tra politica e religione: un sistema che avrebbe dovuto confermare la fratellanza tra arabi ed ebrei.

Scriveva: «Gli arabi continuano a proclamare il loro desiderio di vivere con gli ebrei sotto il tetto di una comune democrazia nella quale gli ebrei disporranno di tutti i diritti rappresentativi ai quali i loro numeri li eleggeranno e avranno gli stessi diritti e doveri degli arabi, come nei fatti non accade in altri paesi del mondo», in The Meaning of the Disaster, Khayat, ediz. 1956, pag. 73. Il Jerusalem Post ha scovato un’altra sua citazione – che non conoscevo – e che ritengo una profezia: non facendo questo, il rischio sarebbe stato cadere «preda di qualche movimento distruttivo, che cerca consolazione nel tumulto e nel disturbo fine a sé stesso, indipendentemente dal risultato». Oggi, mi sembra chiarissimo!

La storia – però – è andata troppo diversamente: Stato e religione in molti Paesi arabi si sono confusi e molti ebrei sono dovuti andar via, precipitosamente, da tanti Paesi arabi. In alcuni casi, come in Libia, sono stati espulsi. E oggi Hamas islamizza la questione palestinese.

Le idee di Zurayek, nel nuovo contesto, mi portano a quelle odierne di un altro grande intellettuale arabo, musulmano, palestinese: Sari Nusseibeh, un intellettuale prestato alla politica e leader della intifada. Nel momento apicale del negoziato tra Israele e Autorità palestinese ebbe a dire ad Abu Mazen, presente Arafat che molto lo considerava: «ma tu cosa vuoi: il nostro Stato in Cisgiordania o il diritto al ritorno in Israele di tutti i profughi palestinesi?». Abu Mazen gli chiese il senso della domanda, perché lui voleva entrambe le cose. E Nusseibeh ebbe a replicare: «Eppure, dovresti aver capito che l’una cosa esclude l’altra». La medicina proposta da Nusseibeh si chiama realismo, ma anche consapevolezza perché l’opzione Zurayek non esiste più, per molti motivi, e la trattativa possibile è con lo Stato di Israele. Per lui bisognava dunque prendere atto che il diritto al ritorno persiste: ma nella nuova Palestina, uno Stato a cui appartenere e a cui poter tornare.

Ora, con la visione di Hamas, col 7 ottobre, si è prodotto l’incubo di un altro immane esodo di popolazione. Mentre il sionismo messianico – presente nel governo di Netanyahu – vieppiù inquieta. E nessuno, da una parte e dall’altra, mi pare, sa bene che cosa fare.

Tra poco sarà passato un secolo da quando i palestinesi soffrono due ingiustizie: la mancata costituzione del loro Stato in quel 55% della Palestina storica che il piano dell’ONU aveva riconosciuto – sebbene la popolazione palestinese fosse superiore al 55% -, ma in confini certi e affidabili. E poi la colonizzazione, incessante, dei territori occupati.

I veri leader carismatici – inascoltati – a me appaiono chiaramente, oggi quelli come Sari Nusseibeh, quelli capaci di prendere decisioni amare nel presente, ma atte a costruire un futuro migliore: un futuro.

Un giorno, mentre incalzava il negoziato di pace, Sari Nusseibeh disse: «tornare in Israele sarà possibile, ma da turisti, come loro potranno venire da turisti in Cisgiordania: questa è la pace possibile».

Reclamare l’impossibile giustizia avrebbe prodotto un danno a milioni di persone, costrette a vivere dal ’48 – con le loro discendenze – nei campi profughi che affollano il mondo arabo, senza un decente presente, né un futuro. Ciò che la visione di Nusseibeh offre ancora, anche a loro, è uno Stato, un indennizzo economico e la pace duratura.

C’è ancora tempo? Non lo so, ma penso che servano “nuovi storici” arabi e palestinesi in grado di fondare o rifondare un discorso nuovo, vedendo anche i propri errori, come hanno fatto i “nuovi storici” israeliani.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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