Il capo-redattore di Haaretz, il più noto quotidiano israeliano, Aluf Benn, ha così concluso il suo articolo apparso l’8 febbraio sul prestigioso Foreign Affairs:
«A gennaio, i parenti degli ostaggi hanno fatto irruzione in una riunione parlamentare per chiedere al governo di cercare di liberare i loro familiari nell’ambito di una battaglia tra israeliani, per stabilire se il Paese debba dare priorità alla sconfitta di Hamas o ad un accordo per liberare i prigionieri rimasti. Forse l’unica idea su cui c’è unità è l’opposizione ad un accordo “terra-per-pace”. Dopo il 7 ottobre, la maggior parte degli ebrei israeliani concorda sul fatto che qualsiasi ulteriore cessione di territorio darà ai militanti una rampa di lancio per il prossimo massacro. In definitiva, quindi, il futuro di Israele potrebbe assomigliare molto alla sua storia recente. Con o senza Netanyahu, la gestione del conflitto e il taglio dell’erba rimarranno la politica dello Stato, il che significa più occupazione, più insediamenti e sfollamenti. Questa strategia potrebbe sembrare l’opzione meno rischiosa, almeno per un’opinione pubblica israeliana segnata dagli orrori del 7 ottobre e sorda a nuove proposte di pace. Ma porterà solo ad altre catastrofi. Gli israeliani non possono aspettarsi stabilità se continuano a ignorare i palestinesi e a rifiutare le loro aspirazioni, la loro storia e persino la loro presenza».
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Per spiegare la sua tesi, Aluf Benn ha esordito ricordando quanto ebbe a dire il leggendario comandante militare, Moshè Dayan, recandosi nel ‘56 ai funerali di Roy Rotberg, un cittadino residente non distante da Gaza e massacrato dai palestinesi di Gaza otto anni dopo la guerra che li vide soccombere: «Per otto anni sono stati seduti nei campi profughi di Gaza, e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi dove loro e i loro padri abitavano in una nostra proprietà». Gli errori e i fallimenti sono la storia che ci ha accompagnato sin qui. E prepara ciò che sta per accadere.
È un fatto notevole che il Segretario di Stato americano – in visita in Israele per cercare un accordo su tregua e rilascio degli ostaggi – dica che «il 7 ottobre non può essere utilizzato come una licenza a disumanizzare gli altri», cioè i palestinesi: ciò appare la prima critica di merito, non solo di metodo, rispetto alle scelte operate dal governo israeliano.
Poche ore dopo, la firma di Aluf Benn sul Foreing Affairs, un’altra firma di spicco, Sarah Yegar, ha fatto notare che «a parte l’avvertimento apparentemente fuori luogo del presidente Joe Biden, lo scorso dicembre, circa il rischio di reputazione che Israele stava correndo effettuando “bombardamenti indiscriminati”, i funzionari statunitensi hanno evitato di dichiarare chiaramente che una particolare azione israeliana a Gaza fosse inaccettabile».
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Poiché siamo ora ad un punto decisivo della tragedia di Gaza, quella di Blinken può essere ormai letta come una critica politico-militare netta, seguita da una sorprendente ed inattesa richiesta di Biden: «tutti gli alleati degli americani che ricevono aiuti e assistenza militare devono dimostrare di usare le armi ricevute nel pieno rispetto delle convenzioni sui diritti umani»: questo presa di posizione – che di per sé non prevede eccezioni – è stata accompagnata da una critica di Biden che quasi tutti i media hanno ritenuta rivolta ad Israele.
Ha detto, fuori dai denti, che la reazione a Gaza è «stata esagerata». Poche ore dopo, però, alcuni media israeliani hanno ipotizzato che il riferimento delle parole di Biden fosse Hamas – mentre stava parlando dei negoziati sugli ostaggi – senza che la Casa Bianca abbia chiarito.
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Il governo israeliano – da quanto si sa – ha chiesto al suo esercito di preparare l’assalto finale alla città di Rafah, nell’estremo sud della Striscia, ove un’infinità di civili – si stima un milione di persone – ha trovato rifugio, come, del resto, costretti a fare, orami, da mesi.
Dopo che l’amministrazione americana ha formulato questi richiami diretti e indiretti a Israele, ma ha posto, per due volte, il veto, in sede ONU, alle richieste di cessate il fuoco, appare doveroso chiedersi: sta cambiando qualcosa tra i due alleati? Lo si vedrà, a breve.
Netanyahu resta sulle sue posizioni: secondo lui, infatti, si sta profilando la vittoria finale, quella che cancellerà, per sempre, il male, cioè Hamas. Ma per l’Egitto l’offensiva contro Rafah sarà il tentativo di costringere la popolazione palestinese di Gaza a fuggire nel Sinai egiziano: uomini, donne, bambini, anziani.
Biden ha fatto chiaramente capire di non condividere un tale orizzonte. Ecco, le parole di Biden contraddicono quelle dell’alleato. Il presidente USA ha detto: «Ora sto spingendo molto per il cessate il fuoco per gli ostaggi». «Ci sono molte persone innocenti che stanno morendo di fame, molte persone innocenti che sono in difficoltà e stanno morendo, e questo deve finire».
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Per il premier israeliano, invece, le cose stanno così: «Ho detto a Blinken che Israele è a un passo dalla vittoria totale. Solo la vittoria totale garantirà la sicurezza di Israele. Il giorno dopo, sarà il giorno “dopo Hamas”. Ci sarà la smilitarizzazione della Striscia e il controllo civile non sarà di certo affidato a chi istiga».
Non è tutto qui. Non lo è neppure per chi vive nel Bel Paese incantato dal festival di Sanremo. Perciò lo scrivo in questo diario. C’è anche il Libano, dove la guerra d’attrito tra Israele e Hezbollah è incandescente. C’è inoltre la questione – assai pericolosa – del “Mar Rosso”.
Penso, in questo momento, agli ostaggi e ai bambini di Gaza. Vorrei vedere la vita che stanno vivendo coi loro stessi occhi, per poterla descrivere. Ma facciamo, insieme, uno sforzo: proviamoci.
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