Diario di guerra /33. A Gaza oltre il bianco e nero

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C’è stata una telefonata di 40 minuti tra il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu: le fonti ufficiali della Casa Bianca hanno fatto sapere che «Biden ha ribadito che un’operazione militare non dovrebbe procedere senza un credibile e attuabile piano di protezione dei civili a Rafah», circa un milione e quattrocentomila sfollati palestinesi.

Il comunicato statunitense sottolinea pure che la discussione tra i due leader ha riguardato anche tutti gli sforzi possibili per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, con la parallela «urgenza di assicurare che gli aiuti umanitari possano effettivamente raggiungere la popolazione in stato di disperato bisogno».

Ma cosa stia effettivamente accadendo sul fronte dei negoziati per gli ostaggi è difficile dire. Ogni ora porta nuove inquietudini. Va notato che forse qualche attrito si è, in parte, ridotto.

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Commentando le dichiarazioni del segretario di stato, cardinale Pietro Parolin – che ha parlato di «reazione sproporzionata» da parte di Israele dopo il pogrom del 7 ottobre – l’ambasciata israeliana ha definito l’affermazione «deplorevole», letteralmente, così come letta nel testo fornito dalla stessa ambasciata.

Poi, un comunicato ufficiale ha corretto l’aggettivo in «sfortunata», attribuendo lo scarto a un difetto di traduzione dall’inglese: così, almeno, la cosa è stata spiegata. In realtà, il termine usato è «regrettable». Tradurre questo termine inglese in italiano con «sfortunata» – dizionario alla mano – è tesi un po’tirata; ma è importante rilevare il tentativo di ridurre la tensione.

Osservo che, prima della «reazione sproporzionata» proferita dal cardinal Parolin, Joe Biden aveva definito la reazione israeliana «over the top», che quasi tutti hanno tradotto con «esagerata». Mi pare che non ci sia una gran differenza.

Le sottigliezze linguistiche appartengono, ad un momento politico mondiale davvero drammatico – tragico – per tanta gente, specie per i palestinesi della Striscia di Gaza e, ovviamente, per gli ostaggi israeliani che vi sono ancora costretti. I negoziati non stanno facendo ancora presa sulla via armata. Gli incubi restano. Tutti.

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In queste ore si è scritto della decisione del primo ministro israeliano di ritirarsi dai negoziati del Cairo, decisione presa senza consultare il ristretto gabinetto di guerra. Di certo il gabinetto di guerra si è riunito successivamente. E ora?

Nella telefonata a cui ho accennato, Biden si è a lungo soffermato sugli ostaggi. Difficile districarsi. I fronti della cosiddetta fermezza sono forti, sia da una parte che dall’altra: più forti di quelli negoziali. Netanyahu è sotto la pressione dei partiti di estrema destra, decisi ad andare avanti con l’offensiva senza accettare negoziati, ma anche sotto pressione di quella parte dei familiari degli ostaggi che sono su una linea opposta. Pure la leadership di Hamas pare influenzata da oscillazioni paurose di umore, tra falchi che vivono fuori da Gaza, nei lussuosi hotel che li ospitano in Qatar, e i pragmatici – si fa per dire – che sono più inclini ad attenuare le condizioni negoziali, da dentro Gaza.

Il punto politico-culturale rilevante contenuto nel comunicato dell’ambasciata israeliana mi sembra quello in cui si afferma che Hamas avrebbe trasformato Gaza nella santabarbara esplosiva, che oggi è divenuta, col consenso della popolazione civile.

Eppure, il sondaggio sorprendentemente condotto da Arab Barometer proprio alla vigilia del pogrom del 7 ottobre, non diceva questo, bensì, piuttosto, evidenziava diffuse accuse rivolte ad Hamas, a motivo della sua corruzione e della sua incapacità politica, manifestando un preciso dissenso. La maggioranza dei palestinesi, secondo quel sondaggio, non era con Hamas: era per una ricerca della pace basata sulla formula dei due Stati, Israele e lo Stato palestinese. Mentre Hamas – sappiamo – neppure contempla che possa esistere lo Stato di Israele.

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I sondaggi non sono tavole di una verità acclarata e certificata. Eppure, i dati esposti da Arab Barometer oggi sembrano trovare conferma nelle parole del giornalista palestinese Jehad Saftawi, fuggito da Gaza: è apparso su Time magazine ed è stato ripreso, in Israele, dal Jerusalem Post, un giornale più vicino a Netanyahu che ai suoi oppositori o ai pacifisti.

Nel testo l’autore, Jehad Saftawi, parla di un tunnel costruito, quale possibile deposito di armi, sotto la sua casa, ora distrutta. Lui lo sapeva, più o meno, e, perciò, viveva con i suoi cari nel terrore, tanto da non osare neppure parlarne, in famiglia e col vicinato. «Ad Hamas non va consentito di riprendere il controllo di Gaza», ha scritto Jehad con fermezza.

Nell’articolo parla per sé, ovviamente, ma sembra voler dire che il vicinato non gli fosse ostile e che quei suoi sentimenti fossero condivisi: nel terrore provato per Hamas e per la sua spietatezza miliziana, foriera di mettere i palestinesi, come lui, fuori di casa da un momento all’altro, in balìa dell’arbitrio dei capi e della tragedia.

Per come io leggo i due elementi – sondaggio e articolo insieme – non vi trovo negazione del fatto che Hamas fosse e, quindi, sia un male. Deduco che tale giudizio di male fosse condiviso, nel timore, da buona parte della popolazione civile: un consenso vi sarà pur stato, ma non così forte, come il governo israeliano ritiene. Questo è un punto di valutazione politica dal quale dipendono anche altre differenze.

C’è poi il discorso che l’ambasciatore israeliano ha posto in un’intervista: non c’è solo Gaza, c’è anche l’Iran. Questo è indiscutibile, ma la popolazione di Gaza può esserne ritenuta la vittima, come quella libanese e siriana. Al riguardo va citata la decisione meritoria, proprio di queste ore, del Congresso americano di dare il primo amplissimo «sì» alla legge che impedirà, quando definitiva, la normalizzazione diplomatica col massacratore siriano, Assad.

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Per tornare a Gaza, può insorgere in chi non si rassegna a vedere in bianco o nero una domanda: questa popolazione non legata al terrorismo o al fanatismo islamista, ha riferimenti, espressioni conosciute? Una risposta a questa domanda la dà padre Giancarlo Pani su La Civiltà Cattolica – sul numero che esce in queste ore – presentando la figura simbolo della questione palestinese: Handala, il bambino reso celebre, negli anni Settanta, con i fumetti di Naji al-Ali; Handala, il bambino sempre ritratto di spalle, come è di chi ha in sorte di essere espulso dalla propria terra.

Eravamo agli inizi della questione palestinese, questione che contrappone a Israele e alla sua vittoria, che esclude Handala dalla sua terra. Con precisione e fedeltà storica al personaggio simbolo di una causa, padre Pani ricorda che Handala non ha un solo avversario. Scrive:

«È impossibile classificare le 40.000 vignette disegnate da Ali in 25 anni di lotta politica: egli attacca l’occupazione israeliana senza risparmiarne i soldati, disegnati più ridicoli che terribili; colpisce i fratelli arabi, ma anche i siriani e i giordani, senza dimenticare l’Iran. Non mancano le battute acide contro gli americani, e non viene risparmiata nemmeno l’OLP. Anzi, i nemici interni sono i più pericolosi. La leadership palestinese è rappresentata con forme obese: trasuda l’opulenza, ottenuta a scapito del popolo che è affamato e muore. In una vignetta del 1984, un capo palestinese comunica in televisione un trionfo politico; intanto un soldato israeliano costruisce sull’apparecchio Tv un muro di separazione con i territori di Israele: è una profetica anticipazione del muro che sarà eretto dal 2002, che incorporerà territori per costruirvi nuovi insediamenti illegali. Ritornano più volte le colonie: mentre Handala guarda le case nuove appena costruite, un bulldozer israeliano solleva la terra per buttarla via, ma in quella terra vi è un palestinese che sta curando la sua piccola pianticella».

Nella radicalità del bambino Handala si coglie una radicalità ben diversa da quella espressa da Hamas e dai totalitarismi ed ideologismi infiltratisi all’ombra della questione palestinese. È quella una radicalità che oggi potrebbe aprirsi, nella prospettiva maturata nel tempo con le sue asprezze, all’urgenza della mutua comprensione e accettazione: la base per costruire un diverso futuro.

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