I più recenti report di stampa internazionale – riguardo al lato del Sinai – danno risalto ad una figura sinora trascurata: l’uomo d’affari più importante nel governatorato egiziano del nord della regione, Ibrahim al Arjani, titolare di un’importante impresa – la al Organi – sulla cresta dell’onda nei servizi turistici della penisola: edilizia e non solo.
È il capo tribale dei Tarabin, fedelissimo del generale al Sisi. Le aziende di al Arjani (o Argani), sarebbero ora protagoniste degli sforzi atti a creare – come dire – una “comfort zone” per chi conduce i camion carichi di aiuti umanitari sul confine egiziano, verso la Striscia di Gaza.
Arjani avrebbe già eretto parecchi uffici, con fax, hostess e molto altro. Certamente di logistica c’era necessità da quelle parti. Ma ciò ha portato la mia attenzione su quanto scritto, non molto tempo fa, dal sito Middle East Eye circa il gruppo al Organi, i camion e gli aiuti. Un articolo che ha avuto moltissime condivisioni sul web.
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Il portavoce di un’organizzazione umanitaria – che ha preferito mantenere l’anonimato – ha riferito al sito, che gli sarebbe stato richiesto un pagamento di 5.000 dollari per ogni camion in transito. Si tratterebbe di una “tassa” sulla gestione del traffico, da pagare ad una compagnia affiliata alla Sons of Sinai (Figli del Sinai), parte dell’impero che fa capo, appunto, all’Organi Group.
Le opere dell’Organi Group ricondurrebbero poi a diverse attività realizzate insieme a due società di proprietà dei GIS, il General Intelligence Service egiziano. Nell’articolo apparso on line il 30 gennaio scorso, si legge che il portavoce della ONG avrebbe detto: «Abbiamo lavorato in tutto il mondo in tempi di guerra, terremoti e altri disastri, ma non siamo mai stati trattati così da uno Stato che trae profitto dal transito di beni umanitari e che sta prosciugando molte delle nostre risorse: la tangente è per ogni camion». Forse questa ONG non ha lavorato in Siria, ove il governo ha speculato sugli aiuti, servendosi soprattutto del tasso di cambio. Ma va aggiunto che l’agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi palestinesi ha dichiarato a Middle East Eye di non aver mai ricevuto richieste del genere.
Di tali traffici, sul versante egiziano, si è occupato, con coraggio, pure l’OCCRP, Organized Crine and Corruption Reporting Project, un gruppo indipendente che si può presumere non abbia vita facile, come, del resto, il sito-gemello Saheel Masr; secondo questi ci sono figure di intermediazione alla frontiera che consentono il passaggio da Gaza verso l’Egitto, in cambio di somme tra i 4.500 e i 10.000 dollari statunitensi.
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L’Egitto nega comportamenti scorretti: su questo si è pronunciato anche il responsabile del Servizio d’Informazione Statale. Resta il fatto che ricordiamo le immagini delle colonne di camion carichi di aiuti umanitari per la Striscia, bloccati per giorni tra Egitto e Gaza. Ora diversi organi di informazione le integrano con le testimonianze dei palestinesi che sostengono di aver dovuto pagare per ottenere gli agognati permessi di transito.
L’affermazione ha peso, come ha peso l’oggettiva difficoltà politica nella quale si trova l’Egitto, come i giornalisti chiamati a rendere conto delle condotte fattuali.
I termini, leggendo quanto scrive su La Repubblica, nel suo diario da Gaza, Samir al-Ajrami, sono un po’ diversi da quelli che si potrebbero immaginare: per 5.000 dollari si può scappare, scrive, citando la compagnia di viaggi Hala, che fa parte del gruppo al Organi. Il racconto di questo giornalista – che vive a Gaza e che non fuggirà perché il suo lavoro è fare il giornalista – non riferisce tanto di operazioni di sciacallaggio, che pur esistono, bensì di possibilità legali offerte dalla agenzia Hala: «L’agenzia ha un sito web per l’applicazione: i soldi vengono versati alla società del Cairo che si coordina con tutte le parti che controllano il valico».
Dunque, siamo nella legalità: ogni sera viene pubblicato l’elenco di chi potrà partire il giorno successivo, che di primo mattino può dunque procedere. Chi non parte viene rimborsato. Successivamente il racconto giornalistico tocca il problema dei visti, che alcuni Paesi sostenitori dei palestinesi non concedono.
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Ma non è tutto qui. È ormai noto che foto satellitari scattate sul nord del Sinai attesterebbero che in quella porzione di territorio si starebbe lavorando alacremente per creare un’area attrezzata a campo profughi, circoscritta da un muro che si sostiene sarebbe alto cinque metri e capace di “ospitare” sino a 100.000 persone in pochi kmq.
Dunque, il contenitore chiuso – costruito, più o meno, nel deserto – dovrebbe servire a contenere i palestinesi in fuga disperata da Rafah, nel caso riescano a superare il muro che il regime egiziano, determinato a impedire l’esodo di palestinesi dalle loro terre e il loro ingresso nell’attiguo Sinai, sta preparando per impedirne la fuga.
Chi in queste ore arriva a scrivere che nel Sinai settentrionale sta nascendo un emirato indipendente dal Cairo esagera, ma va pure capito. Presa alla lettera la tesi appare pura fantapolitica. Ma forse la tesi plausibile è che, dopo aver svolto un ruolo cruciale nella lotta ai terroristi dell’Isis nel Sinai, al Arjani (o Argani) ha già un potere militare, economico e tribale che lo pone al di sopra o al di là del controllo statale. Ecco perché non è eccessivo riferirne.
Di sicuro le foto satellitari comprovano che i lavori sono in atto e c’è chi, come la Sinai Foundation for Human Rights, assicura che – coperti dall’anonimato – alcuni lavoratori hanno affermato che le opere sarebbero affidate alla Abnaa Sinai For Construction & Building, del gruppo Organi, costituita nel 2010 proprio da al Arjani.
Al Sisi ha ribadito il suo più fermo no all’ingresso dei palestinesi nel Sinai ma ha anche affermato che chi riuscisse a passare sarebbe trattato con umanità. Intanto ad oggi questo è quanto mi è parso emergere, nella realtà.
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