Siamo in tanti a dire che la storia è maestra di vita, ma al momento giusto, spesso, ce ne dimentichiamo. Riflettendo sugli accadimenti di questi giorni, di queste settimane, di questi mesi sono andato a ricercare le affermazioni del papa dopo il viaggio in Corea, svoltosi dal 13 al 18 agosto del 2015. Volevo rileggere con precisione cosa disse in quell’occasione.
Rientrando da quel viaggio Francesco, come fa sempre, rispose ad alcune domande dei giornalisti che lo accompagnavano in aereo. Un collega gli chiese se fosse d’accordo con le azioni militari che si stavano delineando per liberare dall’ISIS i territori iracheni e siriani che gli uomini del sedicente Califfo avevano conquistato, compresa Mosul, una città con una significativa presenza di cristiani. Bergoglio, a quella domanda, ha risposto così:
«Grazie della domanda così chiara. In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si potrà fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, c’è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere e dire: È’un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo? Soltanto questo, niente di più».
Francesco mi ha fatto così capire una cosa di enorme importanza: ogni racconto in bianco e nero diviene parziale, anche al cospetto dell’ISIS. Non che l’ISIS avesse delle ragioni: certamente no. Il papa lo definisce l’«ingiusto aggressore». Ma il rischio di combattere i terroristi per impadronirsi dei popoli c’era e c’è. Voglio stare a quel fatto, perché è andata esattamente così. Inoltre, quella tragedia, non facile da fronteggiare, ha segnato, a mio avviso, l’inizio di un’epoca nuova: quella del declino americano.
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Non sono, per principio, un’apologeta del papa. Di quel frangente non ho, ad esempio, condiviso la giornata di preghiera che ha voluto per scongiurare l’intervento americano che si stava delineando, dopo l’uso di armi chimiche contro la popolazione siriana da parte del regime di Assad: l’intento americano sembra fosse di bombardare le piste aeree usate per colpire i civili.
Penso che quell’intervento, poi, non ci sia stato, non perché le armi proibite non fossero state effettivamente impiegate, bensì perché si è temuto che, le stesse, finissero in mani ritenute ancora peggiori di quelle di Assad. Ma la guerra poi ci fu, condotta però dai russi, che mai combatterono l’Isis, contro il quale agì la coalizione internazionale e i curdi: Mosca, al di là delle sue bugie, intervenne solo per tenere in vita, sotto il proprio cappello, il regime di Assad.
Ritengo che Francesco indisse quella giornata di preghiera proprio per quel suo fondato timore: «Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista!». Ora lo capisco meglio. Non dico che avesse previsto, ma aveva capito.
Obama invece si fermò – benché la famosa linea rossa fosse stata passata – per ragioni interne al suo Paese e per scongiurare che l’arsenale chimico, illegale, finisse in mani che non erano «peggiori di quelle di Assad», ma soltanto, diciamo meno controllabili e infatti i russi obbligarono l’amico Assad a distruggerle (non in toto) in cambio dell’assenso americano alla sua sopravvivenza politica – e forse non solo: il sostanziale silenzio di Washington e la muta presenza delle Nazioni Unite davanti allo sterminio dei siriani che si opponevano al regime mi sembrano innegabili.
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Rammento tutto questo perché – sul volo che lo ha ricondotto da Seul a Roma – Francesco mi ha aperto gli occhi sul futuro, divenuto il nostro presente.
Certo: governare un mondo imprevedibile – e persino impensabile – è difficile o impossibile. Dobbiamo abituarci o rassegnarci perché non c’è una potenza in grado di garantire un ordine mondiale. Gli Stati Uniti, col loro maldestro ritiro dal Medio Oriente, hanno mostrato che – piacesse o non piacesse il loro ordine – non sono più in grado di garantirlo (o imporlo) a livello globale, ma non è emerso un nuovo soggetto dominante. L’ordine americano fu creato scegliendo il nemico perfetto: l’Unione Sovietica, a Yalta. Ora quell’ordine è tramontato per tanti motivi ma non ne emerge un altro e l’imprevedibile è parte della nostra realtà ed è destinato a rimanerci, presumibilmente, a lungo.
Quel che non cessa di sorprendermi è che solo Bergoglio, dinnanzi all’impensabile del futuro – in quel caso arrivato alla conquista di intere città da parte dell’ISIS – abbia intuito ciò che stava avvenendo, ossia l’emergere dentro di noi, disorientati e in diversi modi impauriti, del bisogno di nuovi e opposti manicheismi.
Ricordo che, sempre lui, è stato l’unico leader mondiale – a me piace definirlo così perché tale lo ritengo, leader morale globale – che, dopo aver chiesto agli americani di non bombardare la Siria di Assad, ha scritto, in persona, allo stesso Assad per scongiurarlo di rispettare i diritti umani della popolazione civile durante l’assedio di Aleppo – città che aveva ben più di un milione di abitanti – e quindi di fermare l’aggressione, mentre nel versante islamico della città furono bombardati gli ospedali. Qualcuno parlò, allora, di «liberazione dall’Isis», in una città in cui l’Isis non c’era.
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Quale il risultato di quelle vicende? Apriamo gli occhi e vediamo autentiche bombe atomiche umane, pronte ad esplodere e a riesplodere: decine di milioni di profughi, perseguitati di guerra trattati come «scarti», la perfetta definizione coniata da Francesco per i prodotti del sistema.
Chiaramente – col senno di poi – la guerra di Siria fu un contributo a costruire un mondo migliore o la migliore preparazione ai peggiori guasti futuri, oggi già ben sotto i nostri occhi?
Russia e Iran vinsero quella guerra, anche grazie ad un racconto in bianco e nero che, in fondo, ha coinvolto tanti, anche in occidente: se da una parte c’erano terroristi, dall’altra doveva esserci il nemico giurato.
Così la sinistra antagonista e la destra islamofoba hanno potuto far passare quella guerra colonialista (Russia) e imperialista (Iran) per «guerra di liberazione». Ma l’America si è accontentata di lasciar fare, balbettando qualcosa. L’Europa ha pagato la Turchia per non vedere i profughi sul suo territorio. Tutto qui.
Non ci sono paragoni da fare, ogni storia è a sé, ma si tratta di capire. Se si cede ai racconti in bianco e nero si vede solo una parte della realtà, quella con la quale ci identifichiamo. Questa consapevolezza è molto difficile, ma importante.
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Il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pizzaballa, ha pronunciato giorni fa, riferendosi a quanto accade a Gaza, parole collegate e molto importanti, qui a Roma, riportate da Adista:
«Prendere posizione, come spesso ci è richiesto, non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e gemono e non in invettive e condanne contro qualcuno. Può essere facile e comodo, a volte, unirsi al coro delle critiche e delle recriminazioni e ci otterrebbe forse anche l’applauso e il consenso, ma potrebbe trattarsi di una tentazione mondana».
Avverto in queste parole – e ne sono lieto – l’eco della parola alternativa di Francesco. In un mondo che sembra trasformarsi in un gigantesco stadio di tifosi dell’una o dell’altra squadra, questa parola, quasi dimenticata, ci porta a rivedere tutte le vittime, senza chiudere gli occhi davanti alle une o alle altre. A mio avviso Francesco, nel 2015, ci ha messo in guardia dalla progressiva trasformazione del mondo in un grande stadio, pieno di due opposte tifoserie, che di certo non aiutano la pace.