La speranza di un accordo di pace – illustrato da Biden e in tre fasi – c’è. Ma restano tanti timori. Non posso ignorare, infatti, i titoli che si affollano anche nella mia libreria: La fine dell’Occidente; Il tramonto dell’Occidente; La crisi dell’Occidente; La deriva dell’Occidente.
Per chi condivida il pessimismo, la migliore istantanea – forse scattata dal destino – è la rottura fisica del molo temporaneo costruito dagli Stati Uniti, dopo otto mesi di guerra, per portare gli aiuti alla gente di Gaza: travolto dai marosi del Mediterraneo. A cui aggiungo, nel mio diario, la notizia che, in Occidente, siamo ormai quasi tutti d’accordo che l’Ucraina, per difendersi, debba attaccare, anche con le “nostre” armi.
La crisi dell’Occidente – a lungo stella polare del mondo – segnerebbe la confusa crisi globale di un mondo di contrapposti, che perseguono i loro presunti valori smentendoli, di fatto, in maniera palese: c’è una contraddizione nella realtà che tanti, ormai, non mancano di notare e di farci notare. Nascono altre stelle, ma non sono migliori. Non ci sono i migliori. Eppure, bisognerebbe provarci ancora a dare un po’ di luce a questo mondo.
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Forse l’Occidente sta davvero tramontando, definitivamente? Dipende da cosa si intende per Occidente.
Si dà il caso di 50 milioni di like – nel mentre sono sicuramente cresciuti! – scaricati su un account sino a poche ore fa frequentato solo da pochi, per l’immagine, ripresa dall’alto di un drone, sulla sterminata tendopoli di Rafah. Chi non l’avesse ancora vista vada su un qualsiasi browser e digiti «all eyes on Rafah». È solo una foto, ma è emblematica, per me. Cosa si vede? Cosa si capisce? A me ha posto la domanda: dove inizia e dove finisce l’Occidente?
Il grande islamologo, peraltro citato da papa Ratzinger nella sua famosissima lectio magistralis a Ratisbona, Roger Arnaldez ha scritto che ebraismo, cristianesimo e islam fanno parte dello stesso Occidente. Posso essere sostanzialmente d’accordo. Ma non lo scrivo per la stessa ragione per cui – mi sembra- l’ha scritto Arnaldez. L’Occidente è per me il prodotto della storia di un solo mondo.
L’umanità non è come una foresta, non è fatta di singole storie, come alberi ben distinti. Piuttosto la immagino come un inestricabile groviglio di radici e rami. Le civiltà sono divenute – solo poi – campi ordinati e fioriti grazie ad impollinazioni e innesti.
L’immagine devastata di Rafah ora mi suggerisce quanto tempo sia andato perduto, anziché impiegato a lavorare, per distinguere e curare, come i buoni agricoltori dell’umanità dovrebbero saper fare. Mentre a Rafah ha ripreso terreno e vigore la foresta inestricabile, ove non possono certo crescere i fiori.
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Sovente si dice che israeliani e palestinesi sono vittime, entrambi. Un grande israeliano, Tom Segev, si chiede se non abbiano sofferto abbastanza – tutti quanti – per capire e per cambiare.
Senza una riconciliazione – che presuppone un ordine, una cura e, anche, per forza, una separazione – il rischio che ci si inoltri in una foresta che brucia soltanto, senza senso, resta assai concreto. Questo è provato più in quella terra – Israele, Palestina o Terra Santa che dir si voglia – che in Ucraina. Perché la confusione nella Terra Santa è peggiore.
Rifiutare Israele, respingere l’Islam, non considerare i popoli, prima di tutto, lascia la strada al “credo” dei fanatismi, alle guerre di religione, quindi di civiltà.
Ora: cosa c’entra tutto questo con la vera o presunta crisi dell’Occidente?
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Ho letto che il primo fattore di rischio, per la rielezione di Biden, starebbe nell’aumento del prezzo – di alcune decine di cent – dell’hamburger più popolare, il big mac. Reagire alla notizia da snob – con ironia – sarebbe facile ma è sbagliato.
Perché – mi spiegarono la prima volta che andai a New York tanti anni fa – la lezione sta nel fatto che, in tempi molto difficili, tutti, anche i poveri, con un dollaro potevano mangiare: questo era ed è il valore dell’hot dog. Vuol dire che certi effetti delle politiche economiche contano molto di più di quel che si pensi.
Il successo dell’America non sta nella protervia yankee, ma nella attenzione alle genti, ai popoli, tutti, perché tutti possano mangiare e far festa con la musica rock. Questa è l’altra parte della storia – seria – rispetto a quella che grida «morte all’America», ad esempio nei grandi raduni, ufficiali, di Tehran.
Atlantisti o meno, è molto importante riconoscere questa parte della storia, che è anche la nostra storia, specie ora che il molo di soccorso si è rotto, cinico e beffardo. Questa resta la premessa di una umanità che voglia ancora sperare che, anche a Gaza, un’altra storia sia possibile.
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