Diario di guerra /58. Tra Washington e Parigi

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Non è un fatto irrilevante: da almeno 24 ore, nella home page del quotidiano di proprietà saudita stampato a Londra, Arab News, si legge la lunga intervista concessa da Hala Rharrit, la portavoce per i media arabi del Dipartimento di Stato americano, diplomatica di carriera che ha rassegnato le dimissioni dal suo incarico aderendo alla campagna #AbandonBiden, Abbandonare Biden.

Arab News non è un quotidiano ufficiale, è una testata di qualità che ospita opinioni dissenzienti e autorevoli, da campi diversi. Ma è pur sempre uno dei principali organi di informazione sauditi, con un’evidente attenzione al palazzo reale e alle posizioni ufficiali di Riyadh.

Che in ore così importanti per le relazioni tra Stati Uniti ed Arabia Saudita – con l’ennesima visita nella regione del Segretario di Stato Blinken in corso – questa intervista campeggi da un giorno su Arab News non mi appare, appunto, affatto irrilevante, perché le valutazioni della Rharrit non sono ovattate: ove definisce il piano di pace di Biden «to little, to late», cioè troppo poco e troppo tardivo.

È una critica ferma all’amministrazione americana e la sua incapacità di operare in modo equo. Per questo – spiega – di non poter continuare a servire un’amministrazione che non aiuta in ciò che a lei interessa fare, ossia favorire una migliore comprensione tra americani e arabi.

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Consideriamo che il movimento #AbandonBiden si è diffuso tra numerosi funzionari della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, e ha già portato a dimissioni importanti, ma soprattutto a una presa di distanza da Biden da parte di ampi settori arabo-americani, cosa che potrebbe pesare nell’esito della contesa elettorale delle presidenziali.

Intanto, lo stesso piano di pace Biden è passato al voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la sola e sorprendente astensione russa: ci si aspettava, al solito, il veto.  Molti scrivono che pressioni su Mosca sarebbero giunte dall’Egitto, vicinissimo ai sauditi e direttamente interessato a uno sblocco. Il giudizio del mondo arabo è – ora – meno severo?

Cito, comunque, la Rharrit non tanto per gli argomenti – che, sebbene detti meglio, sono poi gli stessi da tempo ripetuti, in quella comunità che critica Biden – ma per la motivazione addotta: «volevo favorire una migliore comprensione tra arabi e americani, ma questa linea dell’amministrazione non lo fa».

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Per capire bisogna entrare un po’ di più nell’universo culturale arabo medio. Proprio in queste stesse ore mi sono imbattuto nell’articolo di un altro giornalista arabo americano che ha sostenuto la seguente tesi, che così riassumo: «so bene che Trump dal punto di vista dei palestinesi potrebbe essere peggio di Biden, ma nonostante questo ho deciso di votare per lui, perché Biden ci ha voltato le spalle, e solo avvertendo che possiamo procurare un danno al suo partito – domani – sarà più attento verso di noi».

Nel mondo arabo, in balia di opposti estremismi – quelli dei regimi o quelli dei fondamentalismi che li avverserebbero – si è diffusa una mitologia della forza, con la quale, necessariamente, fare i conti: questa dice che «esiste solo la forza per farsi valere». Lo dice la realtà da lunghissimo tempo, ove solo la forza – mai il diritto e la giustizia – determina il riconoscimento, la vittoria, il successo, o almeno un’acquisizione.

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Nel mentre, mi ha molto colpito la reazione di alcuni amici arabi, in questo giorno post-elezioni europee: tutti sono sotto shock per il voto in Francia. Le persone con cui mi relaziono telefonicamente da quel mondo sono amici di formazione laico-liberale, e per tutti loro Parigi non è soltanto Parigi: è molto di più.

Il rapporto culturale tra la Francia e il mondo arabo è noto: è un rapporto profondo, frutto di una relazione non facile da riassumere con un solo vocabolo. La Francia è stata a lungo la potenza coloniale, e come tale detestata; ma è stata anche la patria d’adozione per tantissimi intellettuali (e non solo) arabi, che hanno fatto di Parigi la loro seconda patria.

Parigi, nonostante il colonialismo, per loro incarna l’altra chance, il faro, la città dei lumi, la patria di libertà, eguaglianza, fratellanza, cioè di tutto ciò che vorrebbero e non hanno nei Paesi arabi. La Francia, o per meglio dire Parigi, per loro è l’arrogante ma possibile speranza per un domani diverso dall’oggi. Parigi è il mondo arabo che vorrebbero e non hanno, l’antidoto a quella assillante sottocultura che li assilla, quella della supremazia etnica, religiosa, sciovinista: per questo tengono Parigi come ciò che hanno di più caro.

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Sono stato 36 volte a Beirut tra il 1990 e il 2020, da quando purtroppo ho dovuto sospendere le mie visite; ogni volta qualcuno dei miei amici non c’era, perché si trovava a Parigi: la città che mostra che un altro mondo – arabo – è possibile.

Sono convinto che un tale carattere – ineludibile – faccia parte della loro identità: di sentirsi e volersi arabi, mediterranei, europei, modernizzati. Così tentano di rendere anche le loro città. In buona parte ci sono riusciti, perché a Beirut una censura dell’informazione, come si verifica negli altri Paesi arabi, è inimmaginabile.

L’esempio più felice che spiega tutto ciò con una storia personale è quello di Amin Maalouf, grande intellettuale libanese, divenuto cittadino francese, oggi segretario perpetuo de L’Académie française. Maalouf incarna un sogno, che in parte costituisce una realtà. Ma solo in parte.

L’idea che un suprematismo rabbioso, etnico, oppure religioso, oppure sciovinista – o forse tutti insieme – possa conquistare Parigi, per loro, è, oggi, uno shock. E rischia di avere enormi ripercussioni innanzitutto psicologiche, ma anche culturali e politiche, in tutto il Levante.

La scorciatoia della forza come unica via, allora, è davvero in agguato. Penso, perciò, che quello che sarà l’esito del voto anticipato francese sarà pure, dunque, molto importante non solo per la Francia, bensì per tutto il Mediterraneo.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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