Per chi guarda agli Stati Uniti come a un modello, magari miracoloso e irripetibile, di bilanciamento delle molte anime che compongono la nazione, si vede mancare come il terreno sotto i piedi – percependo come il paese si trovi quasi completamente fuori squadra. Particolarismi faticosamente ricomposti per secoli, si stanno imponendo nella loro scomposizione sottraendo possibilità di trovare terreni comuni intorno ai quali ritrovarsi come nazione.
Si apre dunque la stagione di un inedito segregazionismo volontario, coltivato a difesa della propria identità di gruppo, che vede negli altri soggetti identitari non dei possibili alleati con i quali contrattare posizioni condivise, ma l’ombra lunga di un nemico che si è insidiosamente incistato nel terreno sacro di ciascuno.
E il nemico, si sa, è o da eliminare o da ridurre a uno stato di soggezione che ne annichili la pericolosità. Inneggiando per ogni parziale battaglia portata a casa (sia essa una sentenza della Corte Suprema o un referendum in Ohio), nella quale si intravedono i barlumi della vittoria definitiva. In attesa delle presidenziali del 2024 immaginate come l’avvento di un giudizio che non lascerà scampo ai perdenti – il nemico vinto, e non l’oppositore momentaneamente superato.
La democrazia è un sistema fragile, che vive di disponibilità alla negoziazione e ai compromessi. Atteggiamenti questi impraticabili dal nuovo segregazionismo identitario made in USA. Una lacerazione del tessuto sociale americano che si è oramai inoculata ai livelli più diffusi e locali del paese: nelle contee, nei comuni, nelle scuole, nelle assemblee locali, e così via. Tutti luoghi nei quali la condivisione di un territorio e spazi di vita fungeva quale common ground intorno a cui riarticolare la composizione dei molti soggetti/storie/identità che li abitavano. A un anno di distanza dalle prossime presidenziali, sono diventati tutti ambiti di battaglia e contenzioso – dove l’affermazione della propria identità di parte evoca l’eliminazione delle altre.
Ma sono venuti anche meno i soggetti interessati a questa opera politica di ricomposizione delle dispersioni identitarie in guerra tra di loro. Non i partiti, che cercano potenziali elettori proprio negli spazi di radicalizzazione identitaria. Non le istituzioni di governo a tutti i livelli: federale, degli stati e delle comunità locali – che sono oramai lo specchio narcisistico della conflittualità sociale. Non le Chiese e le comunità religiose, che vivono al loro interno la medesima frammentazione inconciliabile della realtà sociale; e si trovano continuamente scavalcate da alleanze religiosa trasversali dove la «guerra dei valori» (culture wars) rappresenta un bene superiore rispetto alla confessione comune della fede.
Per lunghi decenni il corpo episcopale americano era stato preparato e approntato per fare della «guerra dei valori» il perno intorno a cui reclamare un nuovo protagonismo nella vita della nazione – dove la difesa della maggioranza vale più della custodia dei principi democratici. Francesco ha fatto vacillare la copertura vaticana di questo impianto ecclesiale americano, radicato fin dentro la vita delle comunità parrocchiali. E questo non poteva essere sentito che come un atto di lesa maestà: irricevibile e rimandato senza troppi pensieri indietro al mittente. Così il pontefice sudamericano si è trasformato lui stesso nel nemico, attentatore di una sovranità da difendere a ogni costo – per costruire poi quella nuova America finalmente liberata da tutti quegli orpelli e appesantimenti che la nazione si porta dietro dalla sconfitta della Guerra Civile.
Anche nella Chiesa cattolica è finita la stagione di un possibile common ground – la cui urgenza era stata profeticamente intuita dal cardinal Bernardin (in un tempo in cui sarebbe stato ancora possibile trovarlo tra le molte anime dal cattolicesimo d’oltreoceano). Oggi la scomposizione del cattolicesimo americano vive di attese: del prossimo presidente e del prossimo papa. Facendo molto più affidamento sul primo che sul secondo. Indici di un nuovo americanismo invertito diffuso nella Chiesa cattolica statunitense: non più in ragione dell’adeguamento al sistema democratico, come fu un tempo, ma a motivo dell’attesa imminente della venuta del messia liberatore (quantomeno a Washington).
All’internazionalismo della decadenza liberale, contro il quale si getta l’antidoto del Make America Great Again, si oppone ora la grande tribù scesa in piazza il 6 gennaio 2020 per occupare il Campidoglio di Washington – che non vuole la democrazia, ma solo vincere a ogni costo. Utilizzando armi politicamente meno fini di quelle che avevano sancito la sua decennale sconfitta. Sconfitta che l’America liberale aveva costruito nei corridoi del Congresso, nelle aule delle Corti, nelle grandi università di tendenza, attraverso i media e il cinema – senza accorgersi che non aveva mai avuto dietro di sé e con sé tutta la nazione. Pensando, ingenuamente, che quel resto (che non è mai stato veramente minoritario) si sarebbe pian piano potuto addomesticare.
Non sorprende, quindi, la riemersione di un lessico da nuova Guerra Civile che pervade non solo la comunicazione pubblica ma anche gli animi delle persone. Ma questo dovrebbe preoccupare tutti noi.