Doha: il negoziato e l’attesa

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Le moltissime voci sulla prima giornata di negoziato a Doha rappresentano per alcuni un bicchiere mezzo pieno, per altri mezzo vuoto. Intanto, dopo la provocazione del ministro israeliano Ben Gvir che ha messo a soqquadro il suo stesso governo, molto altro è arrivato dalla politica: lettere, ultimatum, avvertimenti, come dai diversi apparati militari, tutti in movimento e dagli estremisti. Ma tutto questo ci allontana dalla sostanza dei negoziati.

Gli ostaggi sono lì da 315 giorni, questo il primo dato indiscutibile. Il secondo è che l’organizzazione Mondiale della Sanità ha reso noto di aver trovato tracce del virus della poliomielite a Gaza. Nelle immaginabili condizioni di vita a Gaza – su cui si hanno poche informazioni a causa della non presenza della grande stampa internazionale – il rischio di epidemie non può essere un allarme da non tenere presente – acuito dalla scarsità di acqua potabile, in parte quella utilizzata sarebbe salata, un fattore di rischio ulteriore.

Il conto ufficiale dei morti in queste ore di negoziato ha superato i 40mila, tra civili e combattenti, il 2% della popolazione prebellica della striscia. L’urgenza negoziale però non è tutta qui. L’accesso degli aiuti umanitari rimane molto problematico, soprattutto a causa della chiusura del valico egiziano di Rafah da quando in quest’area è partita l’operazione militare israeliana.

Secondo un rapporto divulgato da una ventina di organizzazioni umanitarie operative a Gaza questo avrebbe comportato il blocco di 1300 camion di aiuti nella città egiziana di al Arish. Quello di sopravvivere è un lavoro molto faticoso a Gaza. Per tutti, anche per gli ostaggi ovviamente, molti dei quali si sa che sono morti.

Questa, insieme a molte altre emergenze connesse, a partire dalla situazione in Cisgiordania per arrivare all’evacuazione dal sud del Libano e dal nord di Israele di gran parte della popolazione residente, è l’emergenza da risolvere: vita, che si svolge quotidianamente, ogni giorno, di queste persone – a partire da vecchi, donne, malati e bambini.

Il bicchiere di Doha è il loro futuro, e le affermazioni americane che gli sviluppi sul fronte libanese sono legati a quanto accadrà a Doha confermano che il negoziato specifico ha dei file annessi.

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Così si arriva alla constatazione che se la missione a Beirut dell’inviato americano delle ore trascorse non lo ha visto trattare con Hezbollah ma con suoi intermediari, l’assenza di Hamas a Doha non deve essere così rilevante.

C’è un rappresentante permanente di Hamas in città, i negoziatori potranno parlare con lui visto che comunque nessun delegato di Hamas sarebbe mai entrato nella stessa sala dove si trovano i delegati israeliani. Difficile ritenere che sia questo il problema per far decollare il negoziato, il problema è altrove. C’è la volontà politica?

Di certo la fiducia tra le parti non può essere neanche immaginata. Ma a questo nessuno ha mai pensato. Siamo al cospetto di un negoziato in cui gli americani, per il tramite di Qatar ed Egitto, devono apparire credibili a un interlocutore come Hamas con il quale non parlano – per tramite del novantenne presidente della Camera Libanese Berri fare la stessa cosa con Hezbollah.

Si tratta di due interlocutori che da parte loro con gli Usa non vogliono proprio parlare, ma che devono ritenerli affidabili. Ecco allora i co-mediatori: il Qatar è credibile agli occhi di Hamas; Berri (che non rappresenta il governo libanese) lo è agli occhi di Hezbollah. A latere di tutto questo c’è il difficile capitolo della comunicazione indiretta di Washington con l’Iran (tramite l’Oman), almeno per evitare sabotaggi del negoziato.

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Ma non è tutto: ci sono i problemi interni, ad esempio per Israele, le urgenze elettorali americane, le influenze di altri attori, come turchi e sauditi. Rendere più facile il lavoro di sopravvivere (a Gaza e non solo) è un’impresa così complessa da giustificare tanti timori, senza con questo voler dire che l’impresa sia impossibile. Così non si può dire certo che ne scaturirà per forza un pieno successo o un pieno fallimento, anche se pure un esito mediano è difficile da immaginare come potrebbe essere.

Per rendersi conto di tutto, o quasi, si tenga conto di una considerazione presentata in queste ore da alcuni analisti: minacciando la sua rappresaglia contro Israele per l’assassinio del leader di Hamas mentre era in visita a Teheran, l’Iran non stresserebbe solo politicamente Washington, visto che l’attacco sarebbe la fine di una speranza di accordo, ma anche militarmente: da giorni tantissimo personale della marina e dell’aeronautica presenti nella regione, oltre che tanti addetti di supporto, sono costretti in stato di massima allerta 24 su 24 – ora con lo spostamento in Medio Oriente della portaerei Lincoln gli Stati Uniti si trovano anche militarmente scoperti nel Pacifico occidentale.

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