È una drôle guerre, una guerra strana, quella che si sta combattendo in Etiopia. Un conflitto civile molto duro nel quale la propaganda sta giocando un ruolo fondamentale. Sul campo si sono confrontati, da una parte, l’esercito federale, una delle forze armate più efficienti del continente africano, affiancato dalle forze regionali amhara e, per un certo periodo da reparti eritrei. Dall’altra, le milizie legate al Fronte popolare di liberazione del Tigray, cui si è alleato l’Esercito di liberazione Oromo (Ola).
Quella che, nelle intenzioni del premier Abiy doveva essere una veloce operazione per sedare la rivolta dei tigrini, si è rivelata una catastrofe umanitaria. Le forze del Tigray hanno inizialmente subito l’impatto dell’offensiva delle truppe federali.
Ritiratesi nei rifugi in montagna, che il Tplf aveva sempre mantenuto operativi anche dopo la fine della guerra civile contro il dittatore Menghistu Hailè Mariam (1977-1991), le milizie tigrine hanno lanciato a giugno una controffensiva che le ha portate ad occupare parte della regione Amhara e parte dell’Afar e ad avvicinarsi ad Addis Abeba. Quanto vicino? Fonti di Africa parlano di 190 km. Secondo i tigrini, molto più vicini.
Il premier Abiy Ahmed, accompagnato da Haile Gebrselassie, ex mezzofondista e maratoneta etiope, si è recato al fronte dando di sé l’immagine di un primo ministro combattente. Secondo i media locali, avrebbe anche invocato il martirio dei propri soldati per fermare l’avanzata delle milizie del nord.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, più di 5,2 milioni di persone nel Tigray, oltre il 90% della popolazione della regione, necessitano di assistenza salvavita. Quasi 400.000 persone stanno affrontando condizioni simili alla carestia e più di 100.000 bambini nel Tigray potrebbero soffrire di malnutrizione pericolosa per la vita nei prossimi 12 mesi.
Parallelamente al conflitto nel Nord, nelle zone controllate dal governo federale è scattata una dura repressione. Difficile capire la dimensione di questa azione. Molti gli arresti, in parte negati dalle autorità di Addis Abeba, in parte mascherati da fermi di “pericolosi elementi legati ai terroristi tigrini”.
Nella rete, recentemente, è caduto anche un gruppo di salesiani e un cooperante del Vis, Ong legata sempre alla congregazione salesiana. «Nelle missioni salesiane – hanno spiegato fonti etiopi che hanno chiesto l’anonimato – non si fa politica. Fedeli al carisma di don Bosco, i religiosi e i cooperanti aiutano i ragazzi e le ragazze a studiare per costruirsi un futuro.
Ovviamente nelle missioni non si guarda all’aspetto etnico e sono accolti giovani di tutte le etnie. Forse questo non è piaciuto alle autorità». I religiosi e il cooperante sono poi stati liberati, grazie anche all’opera delle diplomazia internazionale che ha mediato con le autorità etiopi.
Di fronte al conflitto, la comunità internazionale non si è fermata. L’Unione Africana ha inviato Olesugun Obasanjo a mediare tra le parti. L’ex presidente nigeriano ha intessuto una fitta trama di contatti sentendo le autorità tigrine a Macallè, i leader regionali amhara e afar, ma anche i Paesi confinanti.
Parallelamente si è mossa la diplomazia Usa. Il Segretario di Stato Usa, nella sua recente visita in Kenya, ha chiesto al primo ministro etiope di «porre fine alla violenza». «Non c’è una soluzione militare alle sfide in Etiopia – ha detto -. Il percorso intrapreso porta alla distruzione del Paese e alla miseria per il popolo etiope, che merita molto di meglio».
I Paesi occidentali, spaventati da una possibile frantumazione dell’Etiopia, hanno chiesto a più riprese un cessate-il-fuoco. Nelle cancellerie occidentali, duramente contestate nelle manifestazioni di piazza ad Addis Abeba, c’è il timore che, se crollasse il Paese, si creerebbe un nuovo fronte di instabilità in una regione, come l’Africa orientale, già interessata da crisi annose, come quella somala, da difficili transizioni, come quelle sudanese e sudsudanese, da regimi poco avvezzi alla democrazia, come l’Eritrea.
Un ipotetico sfaldamento dell’Etiopia sarebbe paragonabile all’innesco di una bomba in un deposito di carburante.
- Ripreso dalla rivista Africa.