Europa e cristianesimo appaiono come i motivi che tengono insieme i due anniversari che danno occasione a questo incontro.
Il primo anniversario riguarda una figura storicamente decisiva nel cammino dell’Europa nel secolo scorso e, per i suoi effetti, fino ad oggi, Robert Schuman (4 settembre 1963); il secondo ripropone all’attenzione un documento autorevole del magistero della Chiesa, Ecclesia in Europa, esortazione apostolica di Giovanni Paolo II (28 giugno 2003) a seguito del secondo Sinodo dei vescovi sul tema che ha avuto al centro la situazione religiosa del continente europeo nella fase del passaggio di millennio.
Leggo le due ricorrenze nella prospettiva dell’oggi e dell’interesse che hanno per una attualità che ad esse appare strettamente legata.
La figura di Schuman
Della figura di Robert Schuman si possono intuire una forza d’animo e una serenità e superiorità di giudizio soprattutto nell’iniziativa annunciata con la famosa Dichiarazione del 9 maggio 1950, da cui prende avvio, appunto, il cammino di unificazione europea.
In lui, il comune anelito alla pace, dopo i disastri e le atrocità della guerra, assume la forma di uno sguardo capace di abbracciare anche la condizione e il punto di vista dell’altro, e cioè della Germania.
In qualche modo, in quanto francese e tedesco insieme, Schuman – che è uomo di frontiera – cerca ciò che consentirà di prevenire il ripetersi della sciagura di una nuova guerra.
Il progetto europeo, che deve in modo particolare a lui, insieme a Jean Monnet, l’idea e l’indirizzo, nasce dalla ricerca delle condizioni per superare motivi e occasioni di rivalità tra le nazioni, e perciò si adopera per metterle insieme – Francia e Germania (occidentale), a cui presto si uniranno Belgio, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi – in una collaborazione che si lasci alle spalle il fatto che fino a ieri l’altro, per così dire, si erano fatte la guerra. Una tragedia come la seconda guerra mondiale non doveva più ripetersi!
Colpisce la lucidità del giudizio morale e storico, capace di guardare lontano, in un futuro nel quale il ritorno di rivalità nazionalistiche avrebbe potuto di nuovo degenerare, come del resto era regolarmente successo in passato fino ad allora. E colpisce la concretezza della via individuata, e cioè la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio che chiedeva alle due nazioni al momento coinvolte di condividere la proprietà e la produzione delle materie necessarie agli armamenti, così da prevenire che esse potessero essere usate dall’una contro l’altra.
Si trattava della proposta di una condivisione di sovranità sul piano economico e non di una cessione di sovranità sul piano politico, che già la proposta federalista avanzava così esponendosi però a un rifiuto. Perciò Schuman può dire: «L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme: essa sorgerà da realizzazioni che creino anzitutto una solidarietà di fatto».
Questa solidarietà di fatto e il cammino complessivo di unificazione economica porterà lentamente a forme di unità estese ad altri ambiti della vita dei vari Paesi che entreranno a far parte della Comunità, diventata dal 1993 Unione Europea.
Non siamo di fronte a un organismo consultivo e intergovernativo, come si riscontra in tante organizzazioni internazionali, ma in presenza di un’istituzione indipendente e sopranazionale, un’Alta Autorità, come la chiama, «le cui decisioni saranno vincolanti per […] i Paesi che vi aderiranno».
Ciò che prenderà sviluppo da queste premesse conserva fino ad oggi una struttura analoga, pur nell’estensione e complessificazione delle materie e delle competenze su cui quella che ora è l’Unione Europea ha autorità di intervenire. Quello che abbiamo così segnalato è un fatto straordinariamente significativo e originale, poiché delle nazioni si sono messe insieme, condividendo sovranità in alcuni settori dell’economia e della vita sociale, con una iniziativa autonoma e libera. Salta agli occhi il contrasto tra questo spirito delle origini e gli egoismi e le divisioni che vediamo emergere tra gli Stati membri.
Questi semplici cenni danno l’idea dell’uomo Schuman, della sua apertura mentale e della sua competenza giuridica e politica, soprattutto della sua sensibilità umana, della dirittura morale, in ultimo, ma non ultima, della sua fede. Nulla di ideologico in lui, solo una volontà di pace che cerca la conciliazione e la collaborazione, anche con il nemico di ieri, creando strumenti di solidarietà. Impressiona soprattutto – e di questi tempi in modo particolare, verrebbe da dire – l’assenza in lui di qualsiasi forma di faziosità o anche solo di parzialità; e poi la capacità di pensare in grande, di guardare lontano, di amare e cercare la pace per tutti.
Viene spontaneo soffermarsi sull’esemplarità di una figura che oggi avrebbe molto da insegnare o almeno da offrire alla riflessione di tutti, soprattutto di chi ricopre pubbliche funzioni. La capacità di visione del bene generale non solo nell’immediato ma anche sul lungo periodo; e poi l’intelligenza nel trovare soluzioni adeguate e nel crearle, se necessario; infine, il distacco e la generosità nello spendersi per la loro realizzazione, avendo a cuore non solo quelli della propria parte: sono tratti che dovrebbero suscitare anche oggi il desiderio di possederli o di farli propri.
Una considerazione nell’ottica del cammino di unificazione europea permette di cogliere come gli elementi essenziali indicati all’inizio permangano: la gradualità del percorso, la successione ordinata dei passi, soprattutto l’allargamento e il coinvolgimento di altri Paesi, il rafforzamento della collaborazione economica come premessa di una crescente coesione politica. Nei fatti, a distanza di tanti anni il futuro appare incerto e il progresso verso una unità di tipo politico quasi velleitario. E questo paga un prezzo alto alla debolezza dell’Unione in rapporto alle potenze geopolitiche globali e regionali.
Lo si vede bene dal bilateralismo ostinatamente coltivato da alcuni Paesi membri dell’Unione Europea, in piena contraddizione con un soggetto sopranazionale che dovrebbe poter disporre di una capacità di iniziativa unitaria e la cui logica istituzionale dovrebbe essere tipicamente multilaterale.
In questo senso, due affermazioni della Dichiarazione di Schuman appaiono di impressionante attualità. Per esempio, là dove suggerisce di «contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano».
Se, su questo sfondo, consideriamo il fenomeno ormai imponente dell’immigrazione e gli strascichi di un colonialismo i cui effetti devastanti tocchiamo con mano ancora oggi, se non altro per la gestione protratta di rapporti, appunto, bilaterali, per fermarci a questo, si vede bene quanto lungimirante sia stato Schuman e quanto lento sia stato e rimanga ancora oggi il cammino di unificazione europea, con danno di tutti, nazioni e popoli.
C’è un’altra affermazione nella Dichiarazione che impressiona per la lucidità. Dice: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Il nesso tra mancanza di unità e guerra (o tra unità e assenza di guerra), che si trova all’origine dell’Unione Europea, conserva a questa il suo carattere identitario al punto da collocarla ancora oggi dentro la medesima secca alternativa.
Penso che la guerra in Ucraina sia, tra altro, un monito dalla gravità enorme. Per non parlare del conflitto in corso in Israele per l’intreccio che non pochi evidenziano con il mondo e con i Paesi occidentali.
A parte il gravissimo problema degli sviluppi e degli esiti dei due conflitti, la domanda è come l’Unione potrà recuperare i ritardi. Vari Paesi membri fanno fatica a rinunciare a un protagonismo in cui ognuno si isola dagli altri, non rendendosi conto di esporsi al rischio dell’insignificanza e soprattutto di una crescente dipendenza di fronte alla potenza di attori globali con i quali nemmeno l’Unione stessa rischia fra un po’ di non potere neppure competere.
Ho voluto lasciare per ultimo l’accenno alla fede di Robert Schuman, ben sapendo che, in realtà, essa costituisce il centro nevralgico del sentire, del pensiero e dell’azione del grande politico europeo.
È una dimensione che Schuman custodisce quasi gelosamente, in ogni caso con un riserbo che dice la preziosità e la delicatezza di una vita interiore che certo egli non dissimula o nasconde, al contrario dedicando ad essa tempi che ne rivelano una cura privilegiata. Come sempre, quando le cose sono solide e tranquille non hanno bisogno di essere esibite o dimostrate; è piuttosto il parlarne troppo o il vanto e l’ostentazione a dar da pensare.
A ben pensare, appunto, è proprio l’esperienza della preghiera e della fede a costituire il centro sorgivo dell’impegno istituzionale di Schuman e della sua intelligenza politica.
Ecclesia in Europa
E proprio il tema della fede ci conduce all’altro anniversario, della Ecclesia in Europa, la quale è centrata sul destino cristiano dell’Europa.
La prospettiva che assume rispecchia perfettamente l’orientamento caratterizzante l’intero pontificato di Giovanni Paolo II, per il quale la comunità dei credenti ha bisogno di riappropriarsi del proprio patrimonio di fede riprendendo coscienza di tutta la sua grandezza e bellezza.
Il papa, che invita a mettere da parte infingimenti e paure, non ignora le difficoltà e i problemi che incombono sulla Chiesa e sul popolo dei fedeli. Parla di «offuscamento della speranza» e di «smarrimento della memoria e dell’eredità cristiana» (n. 7), di «paura nell’affrontare il futuro», di «frammentazione dell’esistenza» e di «crescente affievolirsi della solidarietà interpersonale» (n. 8), senza nascondere che ci sono pure segnali che aprono alla speranza, tra i quali annovera anche il processo di unificazione dell’Europa (cf. n. 12).
La centralità di Cristo chiede di tornare a lui e di affrontare con gli occhi su di lui anche il pluralismo etico e religioso (cf. n. 20). Ciò comporta un invito alla conversione che permetta di recuperare il carattere profondamente cristiano dell’Europa. Emerge così il tema delle sue radici cristiane (cf. n. 25), a cui corrisponde tutta l’opera pastorale della Chiesa. Ne segue la necessità di una nuova azione evangelizzatrice, anche alla riscoperta dei valori che hanno ispirato la cultura europea.
Forte è l’insistenza sulla necessità di una fede non convenzionale ma «più personale e adulta, illuminata e convinta» (n. 49), che si sappia collocare in un contesto ecumenico e interreligioso, e abbia la forza di evangelizzare la cultura e «plasmare una mentalità cristiana nella vita ordinaria» (n. 58). Costruire una città degna dell’uomo diventa un impegno conseguente (cf. n. 97), di cui fa parte l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti in particolare dei migranti e dei rifugiati, a cui offrire una genuina integrazione (cf. nn. 100-103).
Riprendendo nell’ultimo capitolo il tema delle radici cristiane, il documento sottolinea l’importanza del cristianesimo nella formazione dell’Europa, definendola come «un concetto prevalentemente culturale e storico» (n. 108), prima che geografico.
Riconoscendo il valore del cammino di unificazione, riscontra tuttavia in essa «una profonda crisi di valori» (n. 108), oltre che la mancanza di slancio. L’Europa può ritrovare la sua vera identità realizzando il modello che più di ogni altro la caratterizza, e cioè di «unità nella diversità» (n. 109).
In una prospettiva dettata dalla dottrina sociale della Chiesa, l’Europa è chiamata ad un compito di apertura. «Dire “Europa” deve voler dire “apertura”. […] L’Europa non è in realtà un territorio chiuso o isolato; si è costruita andando incontro, al di là dei mari, ad altri popoli, ad altre culture, ad altre civiltà» (n. 111). Di qui l’impegno rinnovato alla cooperazione, alla solidarietà e alla costruzione della pace.
Alle istituzioni dell’Unione Europea e agli organismi anche ecclesiali che operano nello spazio europeo viene rivolta una parola di stima e di incoraggiamento, invitando a fare spazio ai valori che in particolare la tradizione cristiana ha trasmesso e soprattutto alla «presa di coscienza della sua eredità spirituale» (n. 120).
In questi termini, il futuro dell’Europa viene visto dal pontefice nel recupero di un patrimonio e di una tradizione che sono stati determinanti nella sua costituzione e formazione e possono garantire un suo rinnovato rilancio.
Va detto che Ecclesia in Europa ha comunque contribuito anch’essa all’elaborazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea del 2008, nel quale in particolare l’articolo 17 assume un significato rilevante per la definizione dei rapporti con l’UE delle Chiese, riconosciute nella loro figura istituzionale e perciò soggetto di un dialogo «aperto, trasparente e regolare».
A distanza di vent’anni la situazione del cristianesimo in Europa, oltre che del complessivo clima sociale e culturale, è molto cambiata, per quanto possa riconoscersi nella presentazione che ne fa Ecclesia in Europa per alcuni tratti essenziali sia in ordine alla descrizione sia in ordine ai compiti che la attendono.
Dagli anniversari all’oggi e oltre
A voler raccogliere, a questo punto, qualche suggestione, si deve dire innanzitutto che è necessario, sulla scia di Ecclesia in Europa, coltivare uno sguardo ecclesiale accurato su una realtà come l’Europa; le istituzioni deputate, quali il CCEE (con una missione pastorale diretta a tutto il continente) e la COMECE (con una missione che coinvolge i Paesi dell’UE ed è rivolta al dialogo con essa sui temi che hanno attinenza con l’insegnamento sociale della Chiesa), hanno un compito importante in tal senso.
Con riferimento ancora all’esortazione apostolica, poi, non si possono negare le radici cristiane dell’Europa, per come la storia lo mostra e la forma che essa ha assunto denuncia, e come riconoscono studiosi e osservatori dei più disparati indirizzi culturali e religiosi.
Piuttosto, bisogna aggiungere che non è più tanto un riconoscimento formale ciò di cui c’è bisogno, ma la loro rivitalizzazione; che non vuol dire rianimazione di qualcosa che è stato nel passato, ma in esse e attraverso di esse ricerca di nuova fecondità e creatività, in altre parole della «trasformazione di quelle radici in un nuovo progetto» (P. Parolin, in Il Regno attualità, 2023, 547). Radici significa che ci sono potenzialità inespresse nascoste che attendono di manifestarsi e di portare ad attuazione nuova ciò che contengono per questo tempo e per le nuove circostanze storiche. Dunque, le radici sono un compito prima e più che una eredità di cui portar vanto.
Papa Francesco, nel discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo (25 novembre 2014), invitava a «tornare alla ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione Europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente. Al centro di questo ambizioso progetto politico vi era la fiducia nell’uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma nell’uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente». Si tratta di una fiducia fondata.
Gli inizi della Comunità sono il segno che «l’Europa ha saputo rinascere dalle sue ceneri e riformare sé stessa» (P. Parolin, cit.), creando una comunità di nazioni che si erano fino ad allora combattute. Qualcosa di nuovo e non ancora immaginato diventava possibile.
Ciò che si richiede ora è la capacità di ritrovare un’anima, che consiste in quell’insieme di valori comuni da cui l’Europa è nata e si è formata, e di cui sono dimensione imprescindibile la religione, con la sua duplice valenza privata e pubblica, e la libertà di religione.
Lo scriveva Jacques Delors in un discorso del 6 febbraio 1992: «Bisogna dare un’anima all’Europa. Se nei decenni a venire non riusciamo a darle un’anima, una spiritualità, un significato, avremo perduto la partita dell’Europa […]. Con il solo talento giuridico o il solo know how economico l’Europa è condannata a fallire. Senza un lungo respiro non è possibile realizzare l’Unione Europa». Ci vuole dunque fiducia in sé stessi, ma anche un rinnovato, e per certi versi straordinario, impegno per il rilancio dell’Europa.
La figura di Robert Schumann ci dice anche che per fare questo c’è bisogno di uomini e donne dallo sguardo lungimirante, dal cuore grande, dalla mente aperta, soprattutto appassionati del bene comune con perfino una qualche dose di disinteresse per il proprio. Certo, egli ha avuto un’esperienza singolare, passata attraverso la tragedia della guerra.
Merita perciò – come è il caso per la nostra generazione –chiedersi oggi quanto la distanza temporale e la differenza di condizione umana rispetto a chi ha vissuto i disastri inenarrabili di una guerra possano determinare una qualche forma di oblio, e con l’oblio la perdita del senso di ciò che è necessario per mandare avanti una casa comune. Molti di noi forse hanno memoria della volontà di ripresa, di riscatto, di quanti la guerra l’hanno vissuta e hanno cercato con straordinaria laboriosità e ostinazione un benessere che cancellasse anche solo il ricordo delle sofferenze patite.
È possibile vivere e guardare avanti e fare progetti in assenza totale di ostacoli, senza cognizione alcuna di una condizione da cui riprendersi e riscattarsi? Credo che la domanda tocchi in qualche modo la condizione spirituale e morale del nostro tempo. E tale condizione non è irrilevante agli effetti sociali e politici del cammino di un popolo, sul piano della collettività e non solo. Su questo è bene che la riflessione rimanga aperta; c’è bisogno di far sorgere una nuova coscienza di noi stessi e di questo tempo.
Il Sinodo dei vescovi appena celebrato sono convinto potrà contribuire in maniera decisiva ad un futuro che vada in tale direzione di consapevolezza e, insieme, di apertura alla speranza.
- Il seminario ha avuto luogo a Bologna il 3 novembre 2023 ed è stato patrocinato dall’Associazione Cooperazione cristiana per l’Europa e dalle Acli di Bologna.