Riascoltare Emmanuel Macron alla Sorbona, sette anni dopo il suo primo discorso in quella sede, è un po’ come vedere Zinédine Zidane o Roberto Baggio in una partita di vecchie glorie: capaci certo di risvegliare alcune sopite nostalgie, ma anche di stimolare imbarazzanti paragoni col passato.
Il discorso del presidente
Il lungo discorso del presidente francese è stato uno sforzo oratorio lodevole (un’ora e quarantanove minuti) ma scarno di contenuti veramente originali. Ufficialmente, avrebbe voluto essere un «rilancio» dell’iniziativa europea, un colpo di frusta, un incitamento a fare più e meglio rivolto soprattutto ai partner continentali, ma i partner continentali l’hanno sostanzialmente ignorato.
Il tono delle reazioni è dato dal comunicato del cancelliere tedesco Olaf Scholz: un breve riconoscimento dei «buoni impulsi» offerti da Macron, annegato in una sbrigativa retorica sull’amicizia franco-tedesca.
In Francia, il passaggio del discorso che ha fatto più notizia è stato l’«audace» avvertimento che «l’Europa è mortale». Quella che sarebbe, da un punto di vista storico, un’ovvietà avrebbe potuto diventare uno sprone solo se accompagnata da idee su come non farla morire anzitempo. Ma, su quel fronte, chi si aspettava idee nuove è rimasto a bocca asciutta.
Macron ha avvertito che, di fronte ai seri problemi che affliggono il Vecchio Continente (e non solo), «non siamo armati»; e anche se il riferimento non era solo ai rischi bellici, ma anche ai ritardi economici, psicologici e culturali, la metafora militare è diventata da qualche tempo uno attrezzo retorico di predilezione del presidente francese (il 17 gennaio scorso, ad esempio, aveva parlato della necessità di un «riarmo demografico» e di un «riarmo civico»).
Al momento di proporre soluzioni, però, Macron si è incagliato su formule fumose, come quella di «un nuovo paradigma europeo sulla potenza, la prosperità e l’umanismo».
Difesa comune
La proposta di costruire «una difesa credibile del continente europeo» anche senza la NATO, «se necessario», non è che la stanca ripetizione di un vecchio ritornello di cui i presidenti francesi della Quinta Repubblica sono innamorati da sempre, condito, questa volta dall’idea di dar vita a una «accademia militare europea».
Ancora una volta, il nodo principale non è stato sciolto, e d’altronde non poteva esserlo. Per sapere da chi ci si deve difendere occorrerebbe una politica estera comune, un traguardo da cui l’Unione Europea è sideralmente lontana, semplicemente perché non ha un interesse strategico comune.
La somma aritmetica di ventisette politiche estere (senza contare che non è affatto detto che tutti i paesi dell’UE abbiano una chiara visione della loro politica estera) non fa una politica estera comune.
A meno che non si sia convinti, come lo sono sempre stati i presidenti francesi della Quinta Repubblica, che tutto sarebbe più semplice se l’Europa facesse propri gli interessi francesi, e dunque la politica estera francese. Insomma, se le altre ventisei capitali ascoltassero e mettessero in essere i suggerimenti in arrivo da Parigi.
Questioni economiche
Una riprova di questa convinzione si ritrova nella parte del discorso riguardante le questioni economiche.
Il ritardo dell’Europa anche su questo fronte è stato spiegato da Macron con un altro refrain molto in voga non solo all’Eliseo ma in tutta la Francia: siccome i competitori dell’Europa – Stati Uniti e Cina – non rispettano le regole, è assurdo che noi (europei) siamo gli unici a rispettarle.
Insomma, la soluzione preconizzata (sulla quale convergono quasi tutte le forze politiche) non consiste nel cercare di combattere il protezionismo di Stati Uniti e Cina, ma nel diventare apertamente protezionisti.
D’altronde, la Francia è in testa alla pattuglia europea che si oppone vigorosamente al previsto accordo di libero scambio con il Mercosur e a marzo il Senato ha bocciato quello con il Canada (211 contro 44). Senza dimenticare gli acuti squilli protezionisti a difesa di un settore agricolo massicciamente finanziato dall’UE.
Non sembra essere l’approccio più efficace per tentare di guadagnare le simpatie dei vicini europei: più volte, infatti, altre capitali – in particolare Berlino – hanno fatto chiaramente intendere di non essere disposte ad avallare i pruriti protezionisti di Parigi.
Austerità impossibile
Tanto più che, in un’ora e quarantanove di discorso, Macron non ha trovato neppure un minuto da dedicare a una delle questioni interne più spinose del momento, ovverosia il deficit di bilancio del suo paese, arrivato nel 2023 al 5,5% del Pil contro una previsione del 4,9 per cento, col risultato di portare il debito al terzultimo posto in Europa, dietro l’Italia e la Grecia.
L’opinione secondo cui lo Stato potrebbe risolvere tutti i problemi se solo lo volesse, cioè allentando i cordoni della borsa, fa quasi l’unanimità in Francia (come altrove, è vero, ma con più convinzione e più massicciamente che altrove).
È vero che Macron ha fatto dire al suo primo ministro Gabriel Attal (12 marzo) che è la guerra in Ucraina a imporre sacrifici, ma che «una vittoria della Russia sarebbe un cataclisma per il potere d’acquisto dei francesi»; è vero che Macron ha fatto dire al suo ministro dell’Economia Bruno Le Maire (10 marzo) che lo Stato non è «une pompe à fric» (una pompa di soldi).
Ma è anche vero che tutte le volte che sono stati fatti seppur modesti tentativi di tagliare la spesa, il paese è caduto in preda a convulsioni di piazza di fronte alle quali tutti i governi – non solo quelli di Macron – hanno prudentemente fatto marcia indietro.
Meglio l’indifferenza
Se le casse della Francia sono asciutte, dunque, la soluzione è ricorrere alle casse dell’Europa. La BCE dovrebbe far «evolvere le proprie regole», ha spiegato il Capo dello Stato: «Non possiamo avere una politica monetaria il cui unico obiettivo è l’inflazione, soprattutto in un contesto economico in cui la decarbonizzazione è un fattore di aumento dei prezzi».
Non solo un attacco diretto a Berlino e agli altri «frugali», dunque, ma anche uno scaricabarile per il mancato rispetto degli impegni presi alla Cop-21 di Parigi del 2015.
Siccome nessuno ha dimenticato la sortita sulla possibilità di inviare truppe in Ucraina, che il discorso di Macron sia stato accolto nell’«indifferenza delle capitali europee», come titolava Le Figaro il giorno dopo, è tutto sommato il miglior destino che gli potesse capitare.
Se qualcuno vi avesse visto altro che un disperato tentativo di ridurre i margini dell’inevitabile vittoria di Marine Le Pen alle elezioni europee di giugno, l’integrazione europea sarebbe oggi più lontana. È sempre lontana, beninteso, ma non tanto di più di quanto non lo fosse ieri.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 29 aprile 2024