Mentre scrivo questa pagina, leggo, su La Civiltà Cattolica, padre Etienne Perrot, che, circa l’Europa, ricorda un passo di Habermas: «nella modernità culturale, la ragione viene privata della propria esigenza di validità e assimilata a mero potere».
Sta forse in questa logica di «mero potere» la motivazione del disinteresse in cui è caduto il viaggio in Africa di papa Francesco? Sta cioè nell’ostentazione europea di una sicurezza ancora chiusa nella propria roccaforte, ovvero o insieme, specie per quanto riguarda l’Italia, siamo di fronte alla solita fuga dei media – e della politica – dalla grande complessità del mondo?
Il viaggio si è concluso senza essere stato né adeguatamente rappresentato, né capito. I giornalisti c’erano ed erano, naturalmente, tutti bravi. Ma basta dare un’occhiata alle home page dei principali siti d’informazione per notare come la copertura dell’evento sia risultata contenutissima. L’Africa – si sa – non fa notizia. Ma allora perché sobbarcarsi le spese non irrilevanti di un inviato al seguito? Solo perché al Vaticano è meglio non dire no?
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Certamente c’è la convinzione che le storie africane siano troppo lontane e complesse per interessare un pubblico tenuto nel comodo clima autoreferenziale del Continente cristiano assediato da popolazioni africane incolte, incomprensibili, lontane dalla ragione. Eppure, New York Times e Bbc – che avevano i loro inviati a bordo del volo papale – hanno tenuto i pezzi dall’Africa in prima pagina. Di motivi, evidentemente, ne hanno avuti, posto che in Congo e in Sud Sudan non capita tutti i giorni un papa in carrozzella, raggiunto, persino, dall’arcivescovo di Canterbury e dal moderatore della Chiesa di Scozia.
Al pubblico europeo e italiano avrebbe fatto molto bene sapere o ricordare i tempi coloniali in cui i missionari cattolici operavano su una sponda del Nilo e quelli protestanti sull’altra, lanciandosi invettive. Ora i capi delle stesse Chiese viaggiano insieme per dire che i tribalismi e le divisioni – vedasi la rivalità tra il presidente del Sud Sudan e il suo vice, entrambi “cristiani”, ma uno a capo dei Dinka e l’altro a capo dei Nuer – non portano da nessuna parte.
Ci avrebbe fatto bene pure metterci, per almeno un quarto d’ora, nei panni del presidente del Congo, Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi, che, da seduto nella tribuna d’onore dello stato di Kinshasa, si è sentito urlare da migliaia di giovani presenti: «ascolta con attenzione» questo papa che ti dice in faccia: «basta corruzione!».
Dietro gli sguardi severi di Francesco avremmo colto la gravità del silenzio che circonda i nomi di luoghi di tanti massacri congolesi, come Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Uvira. Senza spiegazioni, questi nomi, chi di noi li capisce? Se non parliamo – con la pazienza dell’approfondimento – di un Paese enorme dilaniato da mille milizie armate che trovano nutrimento nella continuità con i nostri mercati – leciti e illeciti – occidentali, cosa siamo in grado di capire? Certo, è più facile riassumere tutto nel famoso hic sunt leones.
Non può essere bastata l’indole interventista sulla guerra ad aver penalizzato la copertura mediatica di questo viaggio, tanto che un giornale che si definisce pacifista, quale il Fatto Quotidiano, ha conquistato un posto sul podio dei meno attenti. Dunque, il problema, per me, sta in questa complessità e, soprattutto, nel sempre più preoccupante e colpevole disinteresse per il futuro globale di questo mondo.
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L’Africa fa notizia se c’è una strage di cui parlare o una milizia di efferati terroristi con cui prendersela con mai esausta islamofobia. Si scrive giustamente di stragi di cristiani, ma mai semplicemente di contadini o di pastori, indifferentemente colpiti, sia che siano cristiani o musulmani.
Se c’è da dar conto dell’imperialismo del Rwanda e dell’Uganda in Congo o del fallimento “cristiano” in Sud Sudan, il discorso evidentemente cambia: questi sono soltanto due imperialismi africani dell’oggi, sostenuti dagli imperialisti di ieri. Si tratterebbe di vedere ora da vicino i diversi smacchi coloniali. Fare i conti sino in fondo col passato. Ma questo, purtroppo, non interessa
Eppure, questo viaggio papale è molto importante perché giunge a quasi a un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina e ci mostra quanto sarebbe stato possibile – a volerlo come Europa – realizzare per tempo un progetto energetico euro-mediterraneo non dipendente dalla Russia di Putin, avvalendosi di giovane forza lavoro africana, in un multipolarismo transcontinentale efficace.
Non ci dovrebbe essere oggi bisogno del colonialismo cinese a rimettere in piedi l’Africa. Sarebbe servita e servirebbe ancora un’Europa meno egoista e ottusa, meno auto-convinta di essere una fortezza autosufficiente e padrona.
Nel discorso di Francesco si è mostrata la caducità dei modelli occidentali – per i quali l’Africa è una miniera a cielo aperto o una discarica pubblica di materie prime – ma anche dei modelli terzomondisti, secondo i quali tutti i mali d’Africa verrebbero semplicemente da noi. Le parole di Francesco hanno scatenato entusiasmi locali e smontato semplicismi nostrani, capaci solo di ridurre il tutto al confronto dei buoni coi cattivi di turno.
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È obiettivamente difficile parlare di salvezza tra campi profughi mantenuti come lager dei potenziali migranti con finanziamenti europei o in mezzo alle miniere piene di minori che scavano la ricchezza di altri con la promozione attiva dei giganti della finanza globale. È questo il lato oscuro e imbarazzante che rende il viaggio del papa poco appetibile sul piano mediatico? Davanti ai fatti e ai disastri è arduo dire di avere “ragione” e conservare ancora “potere”.
L’interesse a raccontare e a cercare di capire quei conflitti dovrebbe essere pari all’interesse per un vero parteneriato euro-africano, tale da fare del Mediteranno il teatro di compensazione tra un Continente ricco di risorse energetiche e di giovani laboriosi e metropoli energivore. La presunzione che l’Europa “cristiana” basti a sé stessa è una pia illusione che, dopo aver consegnato l’Africa alla Cina, ci porterà – e ci sta già portando – a guerre continentali, “tra teste tonde e teste a punta” di brechtiana memoria, entrambe convinte entrambe di rappresentare il vero e il giusto della “cristianità” razionale.
Non ci rendiamo conto che i nostri nazionalismi sono asfittici come i tribalismi africani? New York Times e Bbc, tra i molti, lo hanno colto meglio, forse anche in virtù della storia imperiale dei loro Paesi. Per noi – specie italiani – resta invece il verso desolante «non interessa al mondo chi del mondo non si interessa», neanche quando a cercare di aprirci gli occhi c’è un papa, partito su un bastone e in carrozzella pur di mostrare a tutti.
Carissimo Riccardo,
grazie della tua riflessione. Hai messo il dito nella piaga:”Non interessa al mondo chi del mondo non si interessa”. Credono le nostre testate giornalistiche di saper fare il loro mestiere, di essere brave, sempre all’altezza della situazione. In effetti sono di una gran miopia, vedono solo quello che hanno sotto il naso. Guai a rimproverarle, sono capaci di attingere a tutte le risorse di sproloquio per annientarti.