Danilo Feliciangeli è l’operatore di Caritas Italiana incaricato del coordinamento dei progetti di aiuto alle popolazioni del Medioriente. Di ritorno dalla Giordania e in prossimità di una nuova missione a Gerusalemme – in cui affiancherà il direttore don Marco Pagniello – lo abbiamo raggiunto con alcune domande sulla situazione e sullo stato dei soccorsi alla popolazione di Gaza.
- Caro Danilo, immagino che tu sia stato in Giordania sia per la popolazione giordana sia in funzione di Gaza.
È proprio così: il collegamento tra la Giordania e Gaza è molto forte. La Giordania è l’unico Paese della regione che non ha conosciuto – ad oggi – una implicazione bellica diretta. Ma la popolazione palestinese della Giordania – la maggioranza – è chiaramente molto coinvolta emotivamente, e molto provata, in senso generale, per quanto sta avvenendo a Gaza e in Cisgiordania.
Ogni manifestazione di festa è stata interrotta. La musica è scomparsa dai locali e persino dalle case in forma di lutto e solidarietà coi fratelli palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Questo mi ha molto colpito.
Se non ci sono state, quindi, conseguenze dirette, ci sono state molte conseguenze indirette: comprese quelle economiche, davvero pesanti. A motivo della guerra, infatti, la Giordania sta pagando un alto prezzo, soprattutto in termini di crollo dell’apporto turistico all’economia locale. Anche la Giordania è Terra Santa. I pellegrinaggi e i viaggi verso la Giordania si sono pressoché azzerati. Tanto che uno dei progetti di cui ho discusso con Caritas Giordania, contestualmente ad altro, prevede – anche grazie ai gemellaggi che stiamo istituendo con alcune Regioni italiane – la riattivazione delle visite e dei pellegrinaggi in Giordania. Quando è possibile, la strada migliore della carità è sempre, infatti, quella che passa attraverso l’ordinarietà della vita, della vita buona, nella fraternità.
Ora, in Giordania, c’è pure bisogno di continuare un’opera di assistenza di base, per la soddisfazione dei bisogni primari di tanti poveri. Ma stiamo cercando, insieme, di rivolgere lo sguardo un po’ più in là – al di là della guerra – e a condizioni in cui possano riprendere vigore, ad esempio, progetti di piccolo artigianato o di produzione di colture tipiche locali.
- E verso Gaza?
Come forse ricordate (qui:), dalla Giordania partono aiuti – in generi di prima necessità – verso Gaza: sia via terra, attraverso Israele e il valico di Kerem Shalom, sia per via aerea, con scalo a Rafah; ma ciò avviene solo quando è possibile, ossia quando le operazioni militari lo consentono e i transiti vengono autorizzati.
Benché si tratti di una operazione preziosa per la gente della Striscia di Gaza, si tratta, pur sempre, di un aiuto che si colloca ben al di sotto dell’attuale stato di bisogno.
- Chi alimenta questo ponte di aiuti dalla Giordania verso Gaza?
La Fondazione legata alla Casa reale giordana, a cui sono collegate diverse ONG – tra cui Caritas Giordania – sostenuta, anche, da Caritas Italiana.
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- Hai contatti con chi si trova dentro la Striscia di Gaza?
Come vi dicevo in marzo (qui), dal 7 ottobre del 2023, l’ingresso, così come l’uscita, di operatori umanitari da Gaza è praticamente impossibile. Ma Caritas Gerusalemme è presente in Gaza da ben prima del 7 ottobre e là conserva circa 80 operatori gazawi che hanno fatto e stanno facendo un lavoro immenso, e in condizioni difficilissime.
Un mese fa, a metà maggio, ha potuto aver luogo la prima visita, dopo il 7 ottobre, del cardinale Pizzaballa ai cristiani delle due parrocchie – cattolica e ortodossa – di Gaza. Con lui ha potuto rientrare il parroco – padre Romanelli – che, per lungo tempo, ha sostato in attesa, fuori dalla Striscia.
I nostri contatti con Gaza passano, quindi, attraverso le persone citate, gli amici e i colleghi di Caritas Gerusalemme, che, appunto, da Gerusalemme fanno ponte su Gaza.
- Gli operatori Caritas dove sono e cosa possono fare in Gaza?
Gli operatori Caritas si trovano a Gaza City – nelle due parrocchie cattolica e ortodossa – in cui hanno riallestito il compound di assistenza medica e psicologica che ha fatto seguito allo smantellamento della clinica già operativa nella città. E si trovano pure nei pressi di Rafah – tra Rafah e Khan Yunis precisamente – dove hanno riallestito, in fretta e furia, a seguito dell’intervento militare di terra israeliano, l’ambulatorio medico già attivo per i campi di sfollati in Rafah.
Fanno il primo soccorso e l’intervento medico di base, insieme all’assistenza psicologica, specie per i bambini traumatizzati. Fanno tutto quel che possono, con evidenti limiti di personale rispetto alle persone – moltiplicate – a cui sono chiamati a prestare assistenza; devono poi fare i conti con il limite degli spazi e delle apparecchiature che sono rimaste a loro disposizione. Gli interventi complessi e specialistici non riescono a farli.
Dai due compound – o sedi operative così ubicate – si irradia pure l’attività di assistenza sociale ai più poveri, con l’uso dei voucher e delle carte di credito ricaricabili, per acquisti autonomi delle famiglie: quelli che ancora sono possibili.
Caritas, naturalmente, svolge anche l’attività di aiuto diretto – umanitario – con la distribuzione di generi di prima necessità. L’approccio, tuttavia, è sempre quello di guardare un po’ più avanti, a qualcosa di più e di meglio, altrimenti, facilmente, si scade in un assistenzialismo fine a sé stesso.
- Quale potrebbe essere il “meglio” possibile?
Dal 7 ottobre, è bloccato l’accesso dei beni commerciali nella Striscia. E anche i passaggi dei beni umanitari sono sottoposti a rigorosi controlli: quindi frenati, centellinati.
Basterebbe riaprire ciò che è stato chiuso per rendere la vita della popolazione di Gaza un po’ più semplice, almeno in termini di sussistenza.
- I beneficiari dei voucher di Caritas riescono ad acquistare ancora qualcosa?
Sì, si trova ancora qualcosa da acquistare, ma a prezzi molto alti. La disponibilità dei generi è il fattore limitante. Ripeto: basterebbe riaprire, almeno parzialmente, i passaggi commerciali per andare in soccorso della popolazione.
- In marzo – ci dicevi – i valichi attraverso i quali passano i convogli umanitari, erano tutti, pressoché totalmente chiusi. Poi – mi pare – sono stati parzialmente aperti a Rafah e Kerem Shalom. Nel mentre è stato attivato, dagli Stati Uniti, il molo sul mare per sbarcare gli aiuti. Ora, qual è la situazione?
Gli aiuti paracadutati dal cielo o fatti approdare dal mare hanno forse a che fare con qualcosa di spettacolare – e assai costoso – ma ben poco col beneficio della realtà. La via efficace è la via di terra: le vie terre – al plurale – quelle funzionanti prima del 7 ottobre.
Ora, rispetto a marzo, i valichi funzionano di più, ma sempre a fasi alterne – in ragione delle operazioni militari in corso – e sempre con controlli rigorosissimi che determinano tempi dilatati e freni non da poco.
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- Come funziona la distribuzione degli aiuti, secondo il diritto internazionale?
La distribuzione dovrebbe avvenire, ovviamente, in sicurezza, per tutti: esercito, operatori, popolazione.
L’esercito ha il diritto di verificare che, con gli aiuti, non passino armi e persone intenzionate a combattere. E, quale «esercito occupante», ha il compito di garantire, secondo il diritto internazionale, la sicurezza degli addetti alla distribuzione e della popolazione.
I convogli umanitari transitano da Rafah e da Kerem Shalom. Entrambi i valichi si trovano nel sud della Striscia, quindi devono risalire verso il nord. Ciò spiega perché, in questo momento, sia il nord della Striscia, con Gaza City, l’area in maggiore difficoltà di rifornimento.
Il secondo fattore critico – superati i valichi – è costituito da ciò che avviene e può avvenire lungo il percorso. È successo più di una volta che i convogli umanitari si siano trovati in mezzo agli scontri o ai bombardamenti. L’esercito comunica agli operatori quali dovrebbero essere le vie sicure: ma, come abbiamo purtroppo visto, non sempre lo sono davvero, sia per errori vari, sia per l’imprevedibilità che, in guerra, sembra essere l’unica norma.
Bisogna considerare poi il fattore esasperazione della gente che, quando ha fame, prende d’assalto i convogli. Anche questo succede – con morti e feriti – in guerra così.
- Riesci a rappresentare la situazione di «fame» con qualche dato?
Il cibo, insieme all’acqua potabile, costituisce il principale dei problemi generali per la gente di Gaza, oggi. Il 90% della popolazione versa in una condizione di insufficienza alimentare. Si contano casi di morte per denutrizione: il 31% dei bambini al di sotto dei 2 anni ne manifesta segni evidenti. 50.000 bambini sotto i 5 anni sono a rischio grave di infezione.
Per quanto riguarda i farmaci la situazione non è altrettanto drammatica: c’erano e ci sono ancora scorte. Ma il limite della somministrazione non è determinato dai farmaci, bensì dalle strutture sanitarie a cui i malati possono accedere e, naturalmente, dai numeri del personale addetto.
La sanità, in tutta Gaza, è al collasso. Le strutture sanitarie sono state prese di mira da 458 attacchi, con perdite di personale e di persone pazienti, strumenti, edifici: meno della metà dei 36 ospedali pre-esistenti oggi funziona ancora. Insomma, la situazione è «catastrofica», ove l’aggettivo è tecnico, non letterario. Ora e per i prossimi mesi, incombe l’incubo del gran caldo, col possibile propagarsi delle infezioni.
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- Anche nel compound Caritas – nelle parrocchie – si vive la stessa situazione, di necessità?
Anche là si vive e si condivide la situazione di tutta Gaza. Si sono vissute settimane molto difficili, di penuria di cibo e di timore di esaurimento delle scorte, da un giorno all’altro. Ancora ciò non è accaduto. Il minimo vitale è stato garantito, sino ad ora. Ma tutto è sempre in forse, con la guerra.
- Anche le parrocchie sono state prese di mira dai colpi della guerra?
È successo dopo il 7 ottobre, nel 2023: la parrocchia ortodossa è stata colpita e ci sono stati due morti; la parrocchia cattolica è stata presa di mira dai cecchini. Ma dopo da allora non è più accaduto.
- I cristiani di Gaza sono diminuiti?
Si calcola che la popolazione dei cristiani di Gaza City sia diminuita di un terzo. Ora ci sono circa 500 persone che vivono dentro le due parrocchie, cattolica e ortodossa. I due terzi, quindi, sono rimasti convintamente, perché ancorati alle loro comunità cristiane. Insieme si fanno forza, insieme si aiutano. E questo è molto importante: lo stile Caritas – lo stile della carità – conta sulla forza della comunità.
- Ci sono testimonianze dirette dalle parrocchie di Gaza?
Consiglio di visionare un servizio relativo alla visita di padre Pizzaballa, veramente toccante (qui); e due servizi curati da Caritas Gerusalemme, con testimonianze di diversi operatori (qui e qui).
- Con quali intenti raggiungerai, a giorni, con don Marco, di nuovo, Gerusalemme?
La prima cosa è andare a rendere visita, a farsi sentire accanto ai nostri amici, cioè «prossimi», specie di questi tempi. Abbiamo poi diverse cose da verificare, ad esempio in Cisgiordania, ove è in fase di riallestimento una nostra clinica a Taibe.
Cercheremo quindi di pensare, assieme ai fratelli e sorelle di là, ad un futuro diverso e migliore, nonostante tutto. In particolare, oltre a calcolare la continuità delle risorse per l’intervento umanitario di soccorso in atto, cominceremo a pensare ad un primo piano di ricostruzione a Gaza e, soprattutto, ad una serie di iniziative di riconciliazione tra la popolazione palestinese e quella israeliana: cose che, peraltro, abbiamo sempre cercato di fare. È indubbio infatti – specie con questa guerra – che la pace vera potrà venire solo da cuori tra loro riconciliati.
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