Francesco Casarotto, vicentino, è un giovane analista geopolitico. Ha collaborato con diverse realtà editoriali, sia italiane che internazionali. Attualmente collabora con la rivista Domino e con L’Osservatore Romano.
- Francesco, cos’è la geopolitica?
È difficile dare una definizione assoluta, in quanto la geopolitica è una disciplina scientifica relativamente nuova e variegata. Per molto tempo non ha goduto di buona fama, a causa del suo accostamento all’ideologia nazista. Molti pensatori geopolitici del primo Novecento, infatti, hanno sostenuto tesi in seguito utilizzate dal regime del tempo, in Germania, per accreditare le proprie teorie.
Alcuni definiscono, semplicemente, la geopolitica come l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati: lettura certamente interessante, ma riduttiva poiché la geopolitica rivela sfaccettature assai più complesse e articolate.
Un grande studioso francese, Yves Lacoste – fondatore nel 1989 del Centro di ricerca e analisi della geopolitica – ne ha forse dato una accezione più accettata, oggi, ovvero ha visto in essa i dati dello scontro di potere tra due o più comunità, in un dato territorio. L’assunto è che, al centro dello studio della disciplina, ci sono sempre gli esseri umani, le comunità, con le loro tradizioni e i loro convincimenti. Gli esseri umani contano più della geografia.
A me piace definire la geopolitica un metodo per ragionare sull’attualità mondiale. Certamente, dopo la guerra in Ucraina, il termine ha avuto uno sviluppo importante. La geopolitica si è fatta conoscere dal grande pubblico, anche se citata spesso in modo improprio.
È bene precisare che non esiste, ancora, in Italia, una disciplina accademica chiamata geopolitica: non esiste, infatti, una facoltà universitaria italiana ad essa totalmente dedicata.
- Quali sono le differenze di analisi tra giornalisti, storici e analisti geopolitici?
I giornalisti si muovono sul campo: hanno fonti in loco, lavorano, naturalmente, sull’attualità; guardano agli eventi attribuendo grande rilevanza alle posizioni dei leader delle nazioni e ai capi di governo. Non sto dicendo che questa prospettiva sia in sé sbagliata, ma certamente non tiene conto di molti altri aspetti.
L’analisi geopolitica osserva gli elementi strutturali e tende ad attribuire maggior peso alle costanti che inevitabilmente intervengono, quasi a prescindere dai cambiamenti di leadership: quali gli interessi nazionali, che tendono a perdurare nel tempo. Potremmo utilizzare l’esempio degli Stati Uniti che, nei confronti dell’Europa, hanno mantenuto evidenti interessi fin dall’inizio Novecento: pur col mutare delle loro tecniche di intervento, sono individuabili caratteri di atteggiamento politico durevoli e ben riconoscibili.
L’analisi giornalistica è, quindi, più informativa rispetto a quella geopolitica. Si dà tuttavia il caso che l’analista geopolitico – come spesso vediamo – venga interpellato per consulenze giornalistiche di vario tipo. E viceversa. Il giornalismo rimane fonte primaria anche per la nostra attività, per il suo essere dentro la realtà politica – o bellica – quotidianamente. Possiamo affermare che, senza questo tipo di informazione, lo stesso analista geopolitico non potrebbe svolgere al meglio il suo ruolo, ovvero quello di considerare i rapporti tra le parti, valutando i fattori di lungo corso, oltreché le variabili umane.
Per quanto riguarda la visione degli storici: è anch’essa, naturalmente, parte del bagaglio conoscitivo dell’osservatore geopolitico, che deve far tesoro di tutte le informazioni che compongono il complesso puzzle del suo lavoro.
La situazione dei rapporti tra Polonia e Ucraina, ad esempio, non può essere esaminata esclusivamente dal punto di vista presente, perché è necessario possedere tante informazioni storiche profonde per capirci qualcosa. La geopolitica deve tener conto, possibilmente, di tutto.
Mi viene da dire che i tre metodi di indagine che hai richiamato, ovvero quello della geopolitica, del giornalismo e della ricerca storica, oggi debbano collaborare molto più che in passato, per guardare lo stesso “oggetto” con più lenti di ingrandimento. Penso che si tratti di lavorare in maniera complementare, senza mai arroccarsi su posizioni di esclusività di conoscenza e di prestigio. Anche la geopolitica ha i suoi limiti e non può, certamente, ritenersi disciplina esaustiva della conoscenza nei rapporti tra gli Stati e le popolazioni.
La geopolitica può oggi spiegare molte questioni aperte in Ucraina, a Gaza o a Taiwan, ma ciò non è sufficiente. Necessita dei contributi della scienza economica e della sociologia.
Tuttavia, penso di poter affermare che la spiegazione che la geopolitica può dare delle situazioni è quella più integra e convincente, quella che più mi affascina, pur con tutti i limiti, a cui ho accennato.
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- Questo genere di approccio può apparire iperrealista e, persino, cinico: segna la fine di ogni utopia o speranza di un mondo migliore?
In effetti la geopolitica è molto realista. Spesso è definita la ‘realpolitik’: descrive il «come» e il «perché» gli Stati perseguono, quasi solo ed esclusivamente, il loro interesse nazionale, a prescindere da considerazioni di carattere morale ed etico. Gli Stati si muovono secondo logiche di potere e di sopravvivenza, sempre.
In un mondo non governato da altro, non vi è un potere superiore a quello dello Stato. Certo: si ricorre alle alleanze, ma, come dicono spesso gli americani, non si può chiamare il “911”, il numero di soccorso “superiore”. È il potere del singolo Stato ad autorizzare, al proprio interno, l’uso della forza per impedire comportamenti illegali e, in base alle proprie regole, autorizzarne l’impiego. Ma, in ambito internazionale, non funziona allo stesso modo.
Purtroppo, sia la Società delle Nazioni prima che l’ONU poi, nati, di per sé, con tale compito – mi duole dirlo -, hanno fallito.
La Società delle Nazioni, organizzazione creata nel 1920 e a cui non aderirono gli USA e dalla quale fu esclusa la Russia rivoluzionaria, era nata con l’intenzione di regolare i rapporti e scongiurare scontri armati in caso di controversie. Ciò nonostante, proprio sotto il suo mandato, tra gli anni Venti e Quaranta, furono numerosi e sanguinosi i conflitti, tra cui quello sino-giapponese del 1931, l’aggressione dell’Italia all’Etiopia, la guerra civile di Spagna ecc. Né riuscì nell’intento di frenare la corsa alla Seconda Guerra Mondiale.
L’ONU nacque nel 1945. Sembrava una nuova promessa, ma fu subito vittima dei veti incrociati durante la guerra fredda e, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha fallito molti dei suoi obiettivi.
Per venire all’oggi, l’ONU non è riuscita ad imporre il cessate il fuoco in Ucraina e non riesce ad agire in Medio Oriente. Penso che, se domani dovesse scoppiare una guerra a Taiwan, l’ONU probabilmente resterebbe immobile.
Sono proprio questi gli aspetti che la geopolitica tende ad evidenziare, cioè i motivi di inerzia e il senso di impotenza, che stanno caratterizzando il quadro internazionale, con l’ONU paralizzata dal diritto di veto delle cinque maggiori potenze.
La visione realista della geopolitica costata che ogni Stato può far conto solo sulle sue proprie forze e quando, come in Ucraina, il divario di forze è evidente, facilmente il più debole viene aggredito.
In questo specifico caso, poi, la resistenza ucraina si sta prolungando in ragione dei copiosi aiuti americani ed europei, ma è difficile ipotizzare che questi Paesi, alleati, possano scendere direttamente in campo con i propri eserciti.
Certo, si possono comminare sanzioni – come è stato fatto – ma non ci si può appellare a una Corte Suprema mondiale, se non a un livello poco più che simbolico. L’Ucraina rimane, alla fine, la vittima.
Sarebbe bello e auspicabile che la politica internazionale potesse funzionare con gli stessi criteri della politica interna di uno Stato democratico, ma non è così, purtroppo, che funzionano le cose.
Il realismo geopolitico mi impone di vedere la politica internazionale secondo una logica perennemente conflittuale, per la sopravvivenza delle singole nazioni.
Comprendo, istintivamente, l’accusa di cinismo alla geopolitica, tuttavia non posso che assorbirla come la citata difficoltà di farsi una ragione dei rapporti internazionali. Dobbiamo necessariamente saper distinguere le nostre logiche da quelle che regolano – o non regolano – il mondo.
- Come è nata e si è sviluppata in te la passione per questa disciplina?
Fin da adolescente ho avuto la forte necessità di capire le dinamiche che scuotono il mondo. Sono stato, a suo tempo, fortemente colpito dall’esplodere della guerra del Kossovo nel 1998, dall’11 settembre nel 2001, dalla guerra in Iraq nel 2003. Sono cresciuto in un ambiente in cui c’è sempre stata molta attenzione per la politica internazionale. Io non riuscivo a comprendere, mi sfuggivano le ragioni profonde. Ho assistito a tantissime manifestazioni per la pace, ho letto e considerato gli aspetti economici e sociali dei conflitti. Non me ne sono fatto mai una ragione.
Conclusa la scuola superiore, ho deciso di frequentare una facoltà universitaria che mi fornisse gli strumenti per capirne di più: ho studiato a Trento, presso la facoltà di Sociologia, nell’indirizzo Studi Internazionali. Vi ho sostenuto un solo esame di geopolitica, perché il programma era strutturato su uno spettro ampio di discipline.
Per la magistrale, mi sono orientato verso la “Luiss Guido Carli” di Roma, ed è stato proprio là che sono stato preso dalla geopolitica, grazie alla quale ho trovato più puntuali risposte ai miei interrogativi. Ho scoperto un metodo che consente di semplificare e di dare conto della realtà, ovviamente senza banalizzarla.
La mia scelta professionale di divenire un “geopolitico” non è immune da timori e tremori, perché, specie, in Italia, questa disciplina è vista ancora con sospetto.
Dal 24 febbraio 2022, cioè dall’inizio della guerra in Ucraina, e poi con la crisi mediorientale e la pressione della Cina su Taiwan, sto osservando una intensificazione di interesse della opinione pubblica: la geopolitica sta venendo prepotentemente alla ribalta.
La ragione di tanto interesse è piuttosto amara ma, appunto, realistica. Oggi le aziende di produzione di beni sono uscite dal sogno di un mondo interconnesso e pacifico, in cui si possono tranquillamente far circolare le persone e le merci. Penso che ci si dovrà misurare, per gli investimenti del futuro, sempre più, con i calcoli di rischio geopolitico, come ben ci sta mostrando il caso della crisi dei commerci lungo la via navigabile del Mar Rosso.
Tutto ha poi una evidente ricaduta su tutti noi, sulle nostre tasche, sul quotidiano. Ci pensavamo, forse, al riparo da tali, brutte, congiunture, ma, purtroppo, non è così.
La prospettiva di un mondo sempre più conflittuale è evidente. E ciò non fa che motivarmi a conoscere, approfondire, capire e spiegare, anche se, forse, poco serve ad evitare il peggio.
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- La globalizzazione che posto ha nella genesi dei conflitti?
La globalizzazione ha sicuramente creato nuove diseguaglianze economiche all’interno delle nazioni e delle popolazioni, esacerbando molti conflitti intestini. A livello internazionale, la globalizzazione non è una cosa nuova, nel senso che, da sempre, ossia da quando esistono potenze egemoni, si sono ingenerate globalizzazioni di varia sorte: lo stesso Impero Romano ha prodotto qualcosa di simile, oppure l’Impero britannico – più vicino a noi – che ha preceduto, nel tempo, l’egemonia statunitense. In pratica, si sono verificati fenomeni analoghi di dominio commerciale e militare, dei mari innanzi tutto.
È la marina americana ad aver permesso, nei nostri tempi, lo sviluppo del commercio globale. In tal senso, l’attacco del gruppo armato yemenita degli Houthi nel Mar Rosso, non è altro che un segno dell’attacco all’egemonia globale statunitense.
È inevitabile che l’ordine mondiale fondato dagli USA non possa andar bene a tutti. Ed è logico che altri Stati pretendano regole internazionali diverse. Realisticamente solo grandi o medie potenze, come la Russia, l’Iran e la Cina possono oggi sfidare le regole imposte dagli Stati Uniti. Questi scontri sono pertanto ineluttabili. Ma capisco che una conclusione del genere possa apparire molto cinica, senza speranza di risoluzione; faccia rimanere molto male.
- Un’ultima domanda: come la visione geopolitica si concilia in te con le tue concezioni ideali, forse religiose?
È certamente questo l’aspetto più critico della mia professione, perché, come tutti, ho le mie convinzioni etiche, politiche e religiose, che spesso non vanno nel verso esiti geopolitici. Non nego che questa scissione provoca in me, come, suppongo, in ogni operatore del settore, una lacerazione dolorosa e un prezzo psicologico molto alto.
Mi servo di un esempio. Quando parlo di guerra in Ucraina – o in Medio Oriente – da testimone di certe scene di orrore, il mio impulso immediato è di esprimere giudizi di valore e di prendere posizione. Mentre il buon analista – e io lo devo essere – sa guardare alla realtà “obiettivamente”, come si guarda dall’alto e con un certo distacco: il mondo è così com’è, non come vorrei che fosse.
A tutt’oggi mi sento ancora “troppo” portatore di una concezione idealista. È chiaramente legittimo – e direi quasi doveroso – possedere e coltivare valori. Ma quando io mi appresto ad analizzare le situazioni da professionista, devo fare lo sforzo di lasciar fuori, per così dire, tutto l’altro dalla mia porta. Le mie percezioni emotive rischierebbero di compromettere l’obiettività dell’analisi, mentre il mio compito è fornire chiavi di lettura attendibili del mondo, così come esso è.