La geopolitica di Erdoğan

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erdogan

Con la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria e l’avvento di un nuovo governo transitorio guidato da Mohammed al-Bashir, nuovo primo ministro ad interim fino al primo marzo 2025 si apre una nuova fase in Siria.

Fino a un mese fa, la Siria continuava a essere parte di lente, e spesso sterili, discussioni diplomatiche: si dava per scontato la sopravvivenza degli Assad, e il focus principale era forzare il presidente siriano a sedersi al tavolo con la Turchia per chiudere una volta e per tutte la fase che si era aperta con le Primavere Arabe e la rivoluzione/guerra civile siriana.

Nel corso delle ultime due settimane, però, dopo la presa di Aleppo da parte di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), la situazione è rapidamente cambiata, portando così alla fine del potere della dinastia alawita sulla Siria.

Questa rapida evoluzione è frutto dell’interconnessione di varie dinamiche, locali, regionali e globali. Nell’evoluzione di queste ultime settimane, è apparso chiaro che la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan ha avuto un ruolo fondamentale in tale evoluzione, uscendo come uno dei principali – se non il principale – vincitore.

Lontani sono dunque i tempi della Turchia erdoğaniana isolata ovunque: esattamente cinque anni fa, l’intervento turco in Libia cambiava gli equilibri della guerra locale per il controllo di Tripoli, e apriva una nuova fase degli equilibri geopolitici nel Mediterraneo.

Con la vittoria in Siria, la Turchia ora sublima questa fase con un successo in un Paese che, per i turchi di qualsiasi estrazione politica e culturale, ha un valore geopolitico assoluto.

Dall’isolamento alla centralità

Nel periodo a cavallo tra novembre e dicembre del 2019, prendendo una qualsiasi delle questioni geopolitiche mediterranee dell’epoca, c’era un sempre un fattore che emergeva in tutta la sua strabiliante chiarezza: l’isolamento della Turchia, più o meno su tutti i fronti.

Lontani erano i tempi della politica di «zero problemi con i vicini» di Ahmet Davutoglu: la Turchia era prigioniera della sua «preziosa solitudine» (değerli yalnızlık): termine/concetto geopolitico coniato nel 2013, all’apice del supporto turco per i partiti islamisti post-Primavere Arabe, da İbrahim Kalın, allora principale consigliere per la politica estera di Recep Tayyip Erdoğan e attualmente capo dei servizi segreti turchi, tale concetto disegnava una politica estera basata sui valori morali in opposizione agli stati con politiche ritenute “immorali.”

Questa solitudine, però, aveva assunto contorni preoccupanti per la Turchia: Ankara era divenuta gradualmente sempre più isolata su quasi tutti i fronti. Con l’arrivo della Russia e dell’Iran in Siria, questo isolamento era diventato sempre più problematico, avendo due nemici storici piantati sull’uscio di casa, fondamentali per la sopravvivenza di un regime con il quale Ankara non parlava più.

In effetti, in quegli anni, la Siria era il principale grattacapo geopolitico per Erdoğan. Nel 2019, partendo proprio dalla Siria, l’invasione turca nel nord-est del paese con l’operazione «Barış Pınarı» (Primavera di Pace) aveva scatenato numerose e severe critiche da parte di molte capitali europee, e dell’opinione pubblica europea, in generale.

L’operazione, lanciata il 9 di ottobre, tre giorni dopo il ritiro delle forze americane dalla Siria nord-orientale, annunciato dall’allora presidente Donald Trump, mirava ad indebolire le forze curde siriane delle Unità di Protezione Popolare (YPG), che la Turchia considerava, e considera, affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Per dare un’idea del clima, basta riprendere le dichiarazioni dei fronti contrapposti italiani sulla questione. Dal governo, il ministro degli Esteri dell’epoca, Luigi Di Maio, diceva che «con la Turchia siamo legati da vincoli di alleanza atlantica ma ciò non toglie che l’Italia debba immediatamente condannare l’avvio delle operazioni sia in ragione del prezzo umanitario inammissibile». Dall’opposizione, Giancarlo Giorgetti, invocava l’intervento di Putin contro la Turchia per salvare «gli uomini e le donne curde» chiedendo anche la fine della prospettiva di adesione all’Unione Europea per Ankara.

Lo scontro con l’UE

Questa non era però l’unica questione che alimentava una situazione già sistematicamente tesa. Ankara era in contrasto con Bruxelles e con altri paesi per l’esplorazione petrolifera nel Mediterraneo orientale.

Sfidando apertamente l’Ue e altri paesi della regione, la Turchia aveva inviato la sua nave da perforazione Yavuz al largo della costa meridionale di Cipro, dove aziende italiane e francesi avevano già ottenuto diritti di esplorazione.

Nel gennaio di quell’anno, Egitto, Israele, Grecia, Cipro, Italia, Giordania e l’Autorità Nazionale Palestinese avevano istituito il Forum del Gas del Mediterraneo, con l’obiettivo economico di ottimizzare la produzione e la distribuzione delle riserve di gas offshore nel Mediterraneo orientale, e con l’obiettivo geopolitico di escludere Ankara.

Allargando il quadro, la situazione non migliorava per Ankara. Il principale alleato regionale turco, il Qatar, veniva da due anni di blocco logistico e isolamento diplomatico, lanciato dal quartetto Anti-Fratelli Musulmani capeggiato dagli Emirati Arabi Uniti.

L’anno prima, nell’ottobre 2018, il barbaro omicidio del giornalista Jamal Khashoggi presso il consolato saudita a Istanbul aveva ulteriormente alimentato le tensioni con l’Arabia Saudita, portando Ankara ad esprimere una condanna senza precedenti del governo saudita, con accuse dirette al principe ereditario Mohammed bin Salman.

In risposta, Riyad aveva imposto un boicottaggio informale sui prodotti turchi, alimentando ulteriormente una rivalità che proprio in Siria si era cristallizzata, con il supporto a gruppi opposti.

Intanto in Libia

In tutto questo, in Libia, il Governo dell’Accordo Nazionale (GAN) guidato da Fayez al-Sarraj era prossimo al collasso a causa della rinnovata pressione delle forze del generale Khalifa Haftar.

Nell’aprile di quell’anno, il generale Haftar aveva lanciato un’operazione militare che avrebbe dovuto far capitolare il governo di Tripoli, sancendo il suo arrivo come nuovo forte della Libia. Le scarse capacità militari della sua milizia-presentata-come-esercito (LAAF-LNA) non avevano permesso ad Haftar di conquistare Tripoli velocemente, tant’è che nell’autunno di quell’anno fu la Russia che, inviando un centinaio di mercenari della Wagner, aveva fatto svoltare il conflitto in favore di Haftar.

La Turchia, sebbene non coinvolta (ancora) direttamente in Libia, era uno dei principali alleati di al-Sarraj, ed in effetti nelle prime settimane della guerra, l’allora ministro degli interni del GAN, ed architetto della resistenza anti-Haftar, Fathi Bashagha, era stato in Turchia per spingere i turchi a mandare armi e droni per supportare la resistenza.

Questo supporto, però, non si era mai tradotto in un intervento diretto, per una serie di motivi: la principale preoccupazione geopolitica, di Erdoğan e dell’establishment turco, all’epoca, era la Siria; Erdoğan, con la sconfitta nelle elezioni locali di marzo 2019 e la ripetizione, e la ri-sconfitta, delle elezioni per il sindaco di Istanbul, con la vittoria del candidato dei kemalisti Ekrem Imamoglu, vedeva per la prima volta il suo potere minacciato elettoralmente.

La Libia era percepita lontana, e la mancanza di preparazione militare e di decisionismo politico di al-Sarraj e del suo governo avevano frustrato Erdoğan, con il leader turco che vedeva questa partita come persa.

Tra ottobre e novembre, le richieste libiche di intervento vennero sistematicamente ignorate dai turchi. Fino a quando, con la fine delle operazioni militari in Siria, Erdoğan decise di accettare le richieste di al-Sarraj, legando però l’intervento militare turco – con l’utilizzo anche di gruppi di militanti siriani, in larga parte turkmeni, che sarebbero poi stati rilocati in Libia nei mesi successivi per essere usati come contrappeso alle milizie locali – ad una concessione che, con il senno di poi, ha totalmente sconvolto gli equilibri geopolitici del Mediterraneo: il 27 novembre, Tripoli ed Ankara siglarono il Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica di Turchia e il Governo di Accordo Nazionale dello Stato di Libia sulla delimitazione delle aree di giurisdizione marittima nel Mediterraneo.

In cambio, la Turchia intervenne militarmente in supporto del GAN di Tripoli, cambiando in maniera fulminea le sorti della guerra, bloccando l’avanzata haftariana e di Wagner e rimandando indietro le forze dell’est, creando le condizioni per la fine della guerra ed il cessate il fuoco dell’ottobre 2020.

Questo passaggio permise alla Turchia di rompere il suo isolamento mediterraneo, aprendo una nuova fase di centralità turca nelle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo (allargato), e di cui l’attuale fase siriana con la fine della dinastia degli Assad, le debacle russa e iraniana e l’importanza che i gruppi supportati – direttamente, come l’Esercito nazionale siriano, o indirettamente, come Hayat Tahrir al-Sham – dalla Turchia hanno avuto in questo fase rappresenta probabilmente il punto più alto di questa ritrovata centralità, essendo tra l’altro avvenuta in un paese che, per tantissimi motivi, ha un’importanza fondamentale per la sicurezza turca.

La Siria instabile ma necessaria

La relazione tra Turchia e Siria è relazione tanto fondamentale – per entrambi i paesi – quanto instabile. Gli alti e i bassi che questa relazione ha avuto nei decenni dimostrano come una certa lettura «deterministica» della geopolitica, con gravitas e perentorietà con cui fa risolute affermazioni di immutabilità in sæcula sæculorum delle «vere» dinamiche geopolitiche, lascia spesso il tempo che trova.

Segnata da problemi strutturali formalmente mai risolti, dalla sovranità turca su Hatay fino alla questione dello sfruttamento delle risorse idriche del Tigri e dell’Eufrate, Ankara e Damasco si sono trovate per decenni su sponde geopolitiche di segno opposto.

La Turchia membro della NATO e alleato euro-americana; la Siria filo-sovietica e poi fidato alleato arabo dell’Iran, principalmente in funzione anti-Irachena e come invadente guardiano degli accordi di Ta’if, l’architettura consociativo-confessionale che ha impantanato il Libano post-guerra civile, e alleato di Hezbollah.

I due paesi sono arrivati vicini alla guerra aperta nel 1998: gli anni Novanta furono un decennio nero per la Turchia, che si trovava a dover affrontare l’insorgenza terroristica del PKK; una crisi economica devastante che porterà l’inflazione a un livello tale da introdurre la «yeni lira» e una latente instabilità politica, con una polity frammentatissima, e con militari capaci – con modi meno pesanti del passato ma non per questo meno efficaci – di rimettere gli islamisti nell’angolo (si pensi alla fine del governo di Erbakan nel 1997 con il cosiddetto E-Memorandum, senza un vero e proprio colpo di Stato, come nel 1982 e ancora prima).

In quegli anni, la Siria di Hafez al-Assad dava sostegno ai separatisti curdi del PKK ed al loro leader, Abdullah Ocalan. Quest’ultimo per anni aveva vissuto a Damasco e i suoi gruppi avevano avuto la possibilità di utilizzare alcune basi di addestramento situate nella valle del Bekaa, in Libano, zona notoriamente controllata dalla Siria all’epoca.

La minaccia turca di intervenire militarmente in Siria rappresentò il punto di svolta: la Siria si ridusse a più miti consigli, e nell’ottobre del 1998 i siriani decisero di porre fine al sostegno offerto ai separatisti del PKK, con la firma dell’Accordo di Adana.

Tale accordo ebbe vari riverberi internazionali, alcuni anche abbastanza assurdi. Ad esempio, Ocalan all’improvviso apparve a Roma, arrivato in Italia via Mosca per gentile omaggio di Ramon Mantovani, presenza che imbarazzò non poco il governo di Massimo D’Alema e che rese i turchi furiosi.

L’arrivo di Bashar al-Assad

Nei primi anni Duemila, Bashar al-Assad arrivò al potere esattamente al cambio secolo, in seguito alla morte del padre, delfino non di primissima scelta visto che – in condizioni normali – la successione avrebbe visto il fratello maggiore Basil come erede prescelto, ma tale scenario non poteva avvenire dopo la morte di Basil in un incidente stradale nel 1994.

Con l’avvento dell’era dell’AKP in Turchia e di Erdoğan al potere, la relazioni si mise da subito su binari ben più positivi, favorite anche dall’evoluzione regionale post-11 settembre e con l’invasione americana dell’Iraq che mise al centro delle preoccupazioni regionali un eventuale stato curdo indipendente nell’Iraq del nord, visto come fumo negli occhi sia dalla Turchia, sia dalla Siria. Andava bene un Iraq debole, ma non diviso in tre con uno stato curdo pronto al riconoscimento internazionale.

In quegli anni, anche le relazioni economiche si intensificarono ulteriormente, e la Turchia divenne un attore fondamentale per lo status regionale siriano: l’aiutò dopo le crescenti difficoltà che la Siria aveva avuto in Libano in seguito all’omicidio di Rafik al-Hariri e alla sua uscita dal paese, e divenne l’interlocutore principale nel dialogo israeliano-siriano che si intensificò in quel periodo, prima del collasso totale di questa traccia diplomatica in seguito alla decisione di Israele di avviare l’Operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza il 27 dicembre 2008, azione che pose fine alle mediazione turca, e che anzi inaugurò un periodo di relazioni estremamente complicate tra Turchia e Israele.

Dopo le Primavere Arabe

Con l’avvento delle Primavere Arabe, la situazione cambiò nuovamente. All’inizio, Erdoğan mantenne un approccio abbastanza prudente, anche sulla Siria: stando al resoconto di Philip Gordon – attualmente assistente del presidente e consigliere per la Sicurezza nazionale della vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris ma nella precedente amministrazione prima assistente del segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici (2009–2011) e dopo assistente speciale del Presidente nonché Coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente, il Nord Africa e la Regione del Golfo Persico (2013–2015) – nel suo libro Losing the Long Game. The False Promise of Regime Change in the Middle East, quando, intorno al mese di agosto del 2011 tedeschi, britannici, francesi e americani si coordinavano per chiedere a Bashar al-Assad di lasciare il potere, la Turchia chiedeva di avere ancora alcune settimane per convincere il presidente siriano ad aprire a delle riforme.

Nei mesi successivi, però, quando Erdoğan decise di trasformarsi nell’eroe delle «strade arabe» e cercò di plagiare le transizioni tramite l’influenza che la Turchia aveva sui partiti legati alla Fratellanza Musulmana, la relazione con la Siria collassò nuovamente.

Per la Turchia, la guerra civile siriana divenne quindi sia un problema immediato di sicurezza, fisica ed economica, con milioni di siriani spinti in Turchia dalla guerra, e geopolitico, visto che la sopravvivenza di Bashar al-Assad fu possibile solo tramite l’aumento dell’influenza russa e iraniana nel paese.

La fine di Assad

Quando sembrava che Bashar al-Assad fosse finalmente riuscito a convincere Erdoğan e la Turchia a riaverlo come interlocutore, una serie di eventi esterni – l’attacco di Hamas del 7 Ottobre 2023, la l’indebolimento dell’Iran e dei suoi clienti nella regione e una certa fatica russa – insieme all’evidente sopravvalutazione della propria forza di un Assad particolarmente riottoso all’idea di sedersi al tavolo coi turchi senza vedere tutte le sue condizioni accettate preventivamente, e alla maturazione militare delle forze legate a Hayat Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo guidato da Abu Muhammed al-Jowlani che aveva lavorato negli ultimi anni per rafforzare, professionalizzandole, le sue eterogenee – per nazionalità ed etnia – truppe jihadiste.

Nonostante una certa ritrosia di Erdoğan – più di una fonte turca sostiene che il leader turco avesse pochissima voglia di modificare pesantemente lo status quo in Siria, ed era meramente interessato a rimandare indietro i profughi siriani – l’indebolimento di Hezbollah, la vittoria di Trump, la crescente voglia di HTS (erroneamente vista da molti come un mero proxy turco, ma in realtà attore largamente indipendente) di rilanciare la sfida al regime di Bashar e – come già accennato in precedenza – l’incapacità di Bashar al-Assad di capire che non poteva tirare troppo la corda con i turchi hanno creato le condizioni per l’evoluzione epocale delle ultime due settimane.

Probabilmente, Erdoğan neanche aveva pianificato la fine così repentina della dinastia degli Assad con relativa fuga a Mosca, accettando invece l’idea di avere un vicino debolissimo ma formalmente ancora al potere al quale poter dettare tutte le condizioni che voleva, coordinandosi, ma sempre da una posizione di ritrovata forza, con russi e iraniani.

Ma qui, ad ulteriore dimostrazione che spesso le realtà geopolitiche sono reattive e non lineari, a prescindere dalle varie grandi strategie che ogni attore ha e/o promuove, la debolezza ormai strutturale di un regime che nel corso degli ultimi anni aveva anche perso il supporto anche di molte delle proprie constituency ha fatto il resto.

La guerra civile siriana aveva modificato strutturalmente l’economia politica del regime: Bashar aveva perso il controllo del proprio network di Crony Capitalist ereditato in parte dal padre e rivisto all’inizio degli anni Duemila.

La guerra aveva creato nuove élite economiche, in particolare legate alla famigerata Quarta Divisione controllata dal fratello minore di Bashar, Maher, ancora più oppressive, avide e opportunistiche di quelle precedenti, malviste persino nelle roccaforti alawite della costa o a Damasco, e contro le quali c’erano state proteste sistematiche nel corso degli ultimi otto anni.

Gli errori della Russia

Nel corso degli ultimi dieci anni, la Siria di Bashar al-Assad era divenuta ostaggio geopolitico della Russia e dell’Iran, due paesi che, con modalità e preferenze diverse, avevano salvato il dittatore siriano da fine certa quando la rivoluzione siriana sembrava dovesse finire come quella libica, con la fine del regime e la morte del dittatore.

In effetti, il regime è poi finito, ma con molti anni di ritardo, e questo ritardo si deve all’intervento diretto russo ed iraniano. Entrambi i paesi, come notato in precedenza, sono stati per decenni alleati del regime baathista siriano, ma la qualità del supporto è cambiata in questi ultimi anni.

Per Vladimir Putin, la Siria è sempre stato un tassello fondamentale del rientro russo in Medio Oriente. Messi da parte i problemi interni dei primi anni con la ricostruzione – più o meno effettiva – della Verticale interna del potere, distrutta negli anni eltsiniani, dal 2005 la Russia riprese le relazioni di un tempo con la Siria assadista, condonando prima parte del debito contratto dalla Siria con la vecchia Unione sovietica, riportando importanti compagnie russe, da Stroytransgaz e Tatneft, ad investire concludendo contratti per la costruzione di infrastrutture legate allo sfruttamento di petrolio e gas e per l’esplorazione del sottosuolo siriano.

L’anno successivo, i russi iniziarono i lavori di ammodernamento della base navale di Tartus, elemento che si è rilevato fondamentale per la proiezione di potere russa nel corso degli ultimi 20 anni.

Chiaramente, per i russi la fine del regime di Assad è una sconfitta, sebbene impatto e dimensioni di tale sconfitta vanno ancora definite: appare chiaro il tentativo russo di contenerne l’impatto, di mantenere quando la presenza militare e logistica nel paese – snodo fondamentale anche della proiezione maghrebina e africana di Mosca. Da questo punto di vista, si è già intravista una differenziazione nell’approccio dei gruppi ribelli rispetto alle relazioni con Teheran e Mosca. Al-Jowlani ha apertamente detto che Iran e Hezbollah sono nemici, mentre con Mosca si è detto aperto ad avere un canale basato sul rispetto reciproco, sottolineando come gli eventi in Siria non vanno visti come un attacco a questi paesi.

Da questo punto di vista, è probabile che ci sia anche una paradossale pressione turca nell’evitare una sconfitta strategica per la Russia. Paradossale perché’ il rafforzamento della presenza russa in Siria a partire dal 2015, con l’intervento militare in supporto di al-Assad, ha chiaramente rappresentato un problema per i turchi, ma al tempo stesso ha aperto la strada ad una stranissima metodologia di cooperazione che si è poi ripetuta altrove.

La competitive cooperation inaugurata in Siria si è poi ripresentata altrove, in Libia come già accennato prima, ma anche nel Caucaso meridionale rispetto alla questione del Nagorno-Karabakh, e addirittura in Ucraina, con la Turchia che si è ritagliata un ruolo da unico mediatore.

Elemento centrale di questa cooperazione competitiva è l’esclusione dei paesi occidentali dalle varie equazioni diplomatiche e di sicurezza, rendendole tutte dipendenti dalle relazioni tra Ankara e Mosca. Questa metodologia ha portato alcuni a parlare di un’alleanza tra russi e turchi.

Un tale giudizio è probabilmente estremo: se c’è un qualcosa di molto vicino ad un’inimicizia geopolitica quasi naturale nella storia, quella è la relazione tra mondo russo e mondo turco, sia declinata sulle vecchie scale imperiali che su quelle più contemporanee statali.

Entrambi i Paesi, però, per motivi diversi non accettano un dominio incontrastato delle potenze occidentali nella definizione degli equilibri mondiali, e questo interesse strategico condiviso è alla base di questa metodologia peculiare della cooperazione competitiva.

Analizzando il computo delle varie singole questioni emerse in questi cinque anni, con la fine della dinastia degli Assad, Ankara ha al momento un bilancio nettamente migliore rispetto a quello di Mosca: ha contenuto la Russia in Libia, l’ha indebolita nel Caucaso meridionale, ha impedito il rifornimento della sua Flotta del Mar Nero bloccando gli Stretti sulla base della Convenzione di Montreaux, creando seri problemi alla proiezione militare russa in Ucraina.

In ultimo, questo fulmineo cambio di prospettiva in Siria, l’unico contesto in cui russi continuavano ad avere un vantaggio, dimostra che questa cooperazione competitiva, al momento, ha portato più vantaggi – nelle immediate relazioni bilaterali – ai turchi.

La portata di questa sconfitta è ancora da decifrare. Ma che faccia male, e che ci sia una complessiva sfiducia rispetto all’amico/nemico turco, lo dimostrano vari passaggi.

Uno su tutti, un commento di Alexander Dugin. Su X, ex Twitter, Dugin in un tweet poi cancellato, ha scritto che «la Siria si è rivelata una trappola per Erdoğan, portandolo a commettere errori strategici significativi. Ha tradito la fiducia sia della Russia che dell’Iran, alleati chiave nella regione. Queste azioni hanno isolato la Turchia sul piano internazionale e hanno indebolito la sua posizione strategica. Di conseguenza, l’era della Turchia kemalista sta volgendo al termine. Nonostante il nostro precedente sostegno, da ora in poi dovrete affrontare le conseguenze delle vostre scelte».

Sebbene il ruolo di Dugin nell’impianto intellettuale, filosofico e geopolitico di Putin sia molto meno significativo di quanto molti pensino, e quindi non va assolutamente preso come una sorta di portavoce non ufficiale del Cremlino, di sicuro le sue parole interpretano bene i sentimenti russi per una sconfitta diplomatica e geopolitica che, sebbene non ancora chiara nelle dimensioni complessive, resta molto significativa.

Inoltre, per la Russia, il parziale setback in Siria può avere conseguenze anche in altri teatri. Per Mosca, la proiezione siriane e, più in generale, mediterranea e africana degli ultimi dieci anni è stata funzionale rispetto al perseguimento dei proprio obiettivi nel cosiddetto «Estero Vicino» (Blizhnee Zarubezh’e), in primis in Ucraina.

Dalla Siria all’Ucraina

C’è una correlazione diretta tra intervento in Siria e questione ucraina: dopo il 2014, la Russia ha iniziato a muoversi in altri ambiti, rafforzandosi laddove l’Occidente – per disinteresse o altro – non interveniva. Il caso siriano con le linee rosse obamiane mai rispettate è un caso classico.

L’influenza in Siria si è trasformata in influenza sull’Europa: la crisi dei migranti dalla Siria del 2015, crisi che ha cambiato in maniera strutturale l’approccio europeo ai migranti, è nata dalla macelleria militare di Assad supportata dai russi.

Senza l’intervento militare del febbraio 2022, difficilmente gli europei avrebbero fatto fronte comune con Kyiv, e negli anni precedenti uno dei motivi della scarsa prontezza europea nel supportare l’Ucraina era anche dovuta alla crescita dell’influenza russa in Siria, Libia, e altrove.

Ora, la correlazione tra debolezza russa e Siria è stata fatta dal presidente eletto Donald Trump, che vede nella sconfitta russa in Siria un’opportunità per portare russi e ucraini al tavolo negoziale.

Trump, nei due messaggi dedicati alla questione siriana apparsi su Truth, ha anche sottolineato come la Siria non è una priorità americana e gli americani debbano restare fuori da tale questione.

Da questo punto di vista, c’è anche un passaggio, meno netto, quasi nascosto, ma presente: qualsiasi amministrazione americana, democratica o repubblicana, è sempre più attenta a quei Paesi che – in teatri importanti ma non così importanti per i quali gli americani vogliono spendersi in prima persona – riescono, con le loro azioni a limitare i russi (e i cinesi).

La Turchia, negli ultimi anni, è riuscita a limitare i russi in Libia, in Ucraina, e ora in Siria. Sebbene Erdoğan non sia amatissimo a Washington, in particolare al Campidoglio, le capacità turche di ottenere risultati in contesti particolari (molto sottovoce, a D.C., da anni i turchi vengono lodati per l’azione di supporto al governo di Tripoli in Libia, azione che per molti doveva essere svolta dagli europei) vengono notate e apprezzate.

Il supporto turco è stato fondamentale in questo passaggio che ha portato alla fine della dinastia assadista in Siria. Probabilmente non c’era l’obiettivo immediato di liberarsi di Bashar al-Assad, e i turchi hanno più che altro reagito alla sua incapacità di accettare la sua debolezza, cercando di imporre condizioni impossibili per iniziare a trattare.

Senza queste, probabilmente, Turchia e Siria avrebbero negoziato un accordo che avrebbe preservato, almeno nel brevissimo periodo, il potere di al-Assad nel paese. Ciò non è accaduto, e per la Siria ora si apre una fase piena di incertezze dove anche la sua integrità come stato sovrano come conosciuto sino ad oggi è in pericolo.

Di sicuro, però, nell’ingrovigliata competizione geopolitica siriana, la Turchia di Erdoğan è emersa come il vero kingmaker di questa fase.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 15 dicembre 2024

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