Con una lunga sentenza pubblicata il 26 febbraio, che andrà debitamente studiata nei dettagli, la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato nullo l’articolo 217 del Codice penale della Repubblica federale che vietava forme «organizzate di aiuto al suicidio» – di carattere commerciale o meno. La decisione di non costituzionalità della norma penale si basa su un’interpretazione dell’autonomia della persona compresa come autodeterminazione che deve essere protetta da indebite intromissioni del potere legislativo dello stato.
La Corte e il Parlamento
Secondo i giudici di Karlsruhe «il diritto complessivo della persona (art. 2 par. 1 della Legge fondamentale in connessione con art. 1 par. 1) racchiude un diritto al morire in maniera autodeterminata. Questo diritto implica la libertà di togliersi la vita e, nel fare ciò, di ricorrere all’aiuto volontario di terzi. La decisione del singolo, presa in riferimento a questo diritto, di porre fine alla propria esistenza secondo la propria comprensione della qualità della vita e della sensatezza del vivere deve essere rispettato fin dagli inizi dallo stato e dalla società come atto di autodeterminazione autonoma».
La sentenza non nasce, quindi, da un vuoto legislativo in materia; piuttosto, interviene su un articolo di legge che aveva impegnato a fondo sia il Parlamento che la società civile tedesca negli anni passati.
Con un dibattito parlamentare tra i più alti che si siano registrati nell’ultimo decennio, non solo in Germania ma in tutta l’Europa, nel corso del quale i partiti avevano lasciato libertà di voto secondo coscienza ai propri rappresentanti in ragione dell’estrema delicatezza della materia, aperto ai contributi provenienti dalla società civile, da associazioni professionali di vario genere, oltre che dai comitati etici a livello regionale e federale, il Parlamento tedesco era riuscito a convogliare un’ampia maggioranza intorno alla proibizione di forme organizzate di aiuto al suicidio, senza con questo escludere altre possibilità di «suicidio assistito».
A questa convergenza avevano spinto soprattutto preoccupazioni a riguardo delle fasce più vulnerabili della società, come anziani o malati terminali, per evitare che pressioni di carattere esterno o il timore di essere un peso li spingesse verso la decisione di ricorrere a offerte organizzate di suicidio, da un lato; e, dall’altro, una precisa volontà del corpo parlamentare di fare in modo che il suicidio assistito non rappresentasse una sorta di norma sociale non detta per quanto concerne il tema del fine vita in Germania.
La sacralità dell’autodeterminazione
I giudici hanno in parte riconosciuto la pertinenza e la plausibilità costituzionale di queste preoccupazioni del Parlamento, affermando però che nella sua formulazione la legge «svuota di fatto le possibilità di un suicidio assistito». Inammissibile è anche la volontà dello stato di limitare le condizioni che rendono possibile un ricorso a terzi davanti alla volontà manifesta di porre fine alla propria vita. «Il diritto a un morire autodeterminato non può essere limitato da situazioni eteronome, come difficili o inguaribili condizioni di salute, oppure fasi della vita e della malattia. Questo diritto sussiste in ogni momento dell’esistenza umana».
Nella declinazione data dai giudici, quindi, il diritto all’autodeterminazione nella forma del suicidio, e nel conseguente diritto di ricorrere a terzi disponibili a farlo per metterlo in atto, si pone al di sopra di qualsiasi forma comune condivisa dal corpo sociale: né la legge morale (che a dire il vero nella Legge fondamentale è riconosciuta essere un limite all’agire autonomo del singolo cittadino, insieme al mantenimento di un ordinamento costituzionale della coesistenza umana), né la «ragionevolezza obiettiva», possono frapporsi fra la autodeterminazione di sé e la libera decisione che ogni singolo può prendere sulla propria vita in diritto di essa.
La solitudine del cittadino
La disarticolazione praticamente totale del singolo dai legami sociali e civili del vivere (e del morire), che alla fin fine viene prodotta dalla sentenza, pone non pochi problemi e questioni che vanno ben oltre la materia specifica su cui la Corte ha deliberato. Si avvia, infatti, un processo che può andare a incidere profondamente sulla figura stessa della cittadinanza, comune e condivisa, regolata da un potere riconosciuto nella forma rappresentativa della sua espressione e affidato alla negoziazione politica su temi, anche cruciali, intorno ai quali il corpo sociale ha legittimamente visioni diverse.
Questa la pratica della cittadinanza messa in esercizio dal Bundestag nel lungo processo che ha portato alla formulazione della legge. Rispetto alla quale vi erano gli spazi per casi di obiezione di coscienza e, quindi, per avviare pratiche singole corrispondenti.
La decisione della Corte costituzionale tedesca disegna un altro immaginario della cittadinanza dove il potere, anche nel riconoscimento dell’autodeterminazione davanti alla scelta del modo di morire, slitta da un soggetto all’altro senza essere veramente nelle mani del singolo cittadino. Il potere, infatti, si muove «da un’aristocrazia del sapere eletta e rimovibile [quella politica e rappresentativa del Parlamento] a un nucleo di giudici professionisti che è altrettanto remoto e meno rappresentativo, e che non viene eletto né tantomeno può essere rimosso» (J. Sumption).
Un compito della politica
Ricorrere alle corti per risolvere questioni conflittuali che riguardano aspetti fondamentali della coesistenza umana significa «invitare i giudici a legiferare. Il problema più grande quando si tratta di leggi che riguardano i diritti umani è che lo si fa con troppa facilità, trasformando questioni politiche controverse in questioni di diritto per le corti. Perché il processo [politico] è il solo metodo mediante il quale la gente è in grado di avere una parte, sebbene indiretta, nella configurazione della legge» (J. Sumption). Quando a questa parte si rinuncia, qualsiasi siano le ragioni che spingono a ciò, si produce una condizione di fatto che trasforma anche il ruolo dei giudici all’interno del sistema democratico.
Aspetto, questo, percepibile tra le linee della sentenza della Corte costituzionale tedesca, quando muove una critica alla deontologia medica come fonte normativa della categoria professionale. «Senza offerte organizzate di aiuto al suicidio il singolo è vincolato alla disponibilità individuale di un medico che, quantomeno prescrivendo i principi attivi necessari al suicidio, co-agisce in maniera assistenziale. Su una simile disponibilità individuale medica, guardando le cose in maniera realistica, si può far conto solo come eccezione. Finora i medici mostrano una disponibilità minima nell’aiutare al suicidio e non possono essere obbligati a fare ciò (…). Inoltre la deontologia medica pone ulteriori limiti alla disponibilità di prestazioni che aiutino il suicidio».
Fine della deontologia professionale?
Al legislatore, nella riformulazione della legge, vengono lasciati alcuni spazi procedurali rispetto alla regolazione della pratica organizzata di suicidio assistito che, però, non possono limitarla sottoponendola a dei «criteri materiali, come l’esistenza di una malattia incurabile». Quello che rimane possibile ora in sede di legge è di delineare, «a seconda delle situazioni di vita, diversificate richieste inerenti la serietà e continuità di una volontà di suicidio».
La Corte prescrive inoltre una revisione della deontologia medica corrispondente al diritto di autodeterminazione del singolo nella decisione di ricorrere a terzi per suicidarsi: «Questo richiede non solo una elaborazione coerente della deontologia dei medici e dei farmacisti ma anche, probabilmente, un adeguamento delle leggi che riguardano i narcotici e gli anestetici».
La fragilità della democrazia
Con questa decisione i confini fra potere legislativo, giudiziario e deontologia professionale si fanno porosi, quasi impalpabili. Un inedito per le nostre prassi democratiche: «la democrazia, in senso tradizionale, è un costrutto fragile. È estremamente vulnerabile davanti all’idea che i propri valori siano così ovviamente urgenti e giusti, che il modo mediante il quale si riesce a farli adottare non conti» (J. Sumption).
Come mediamo e negoziamo i nostri valori e diritti nello spazio pubblico condiviso da tutti decide oggi del futuro di quella fragile cosa che chiamiamo democrazia. Una possibilità di non fare della cittadinanza un diritto di proprietà privata e di concederci alle mani di un potere che solo illusoriamente pensiamo di avere saldo nelle nostre: «la vita privata è oramai vista sempre più come una proprietà, come una cosa che può essere comprata o venduta nello spazio del mercato» (B.E. Harcourt) – in qualsiasi momento.