Nel mese di marzo 2019, il premier turco, Erdoğan ha promesso che cambierà lo status della basilica Hagia Sophia (Santa Sofia) di Istanbul trasformandola da museo in moschea.
È bastata questa dichiarazione per riaccendere una contesa con la Chiesa greco-ortodossa, resa ancora più aspra in questi ultimi tempi. «Nessun cambiamento dello status di Hagia Sophia è accettabile – ha dichiarato il viceministro degli Esteri greco, Miltiadis Varvitsiotis, in un un’intervista il 18 maggio scorso –, come informa la Fondazione Pro Oriente: la basilica – ha sottolineato – fa parte del patrimonio mondiale e non può essere reinterpretata in stile neo-ottomano».
Il politico greco ha ricordato che Atatürk, il fondatore della Repubblica turca nel 1935 aveva volutamente spogliato Hagia Sophia del suo carattere religioso. Qualsiasi tentativo di re-islamizzazione porterà anche ad un ulteriore isolamento della Turchia nel Consiglio d’Europa, attualmente presieduto dalla Grecia.
La presa di posizione di Varvitsiotis è sorta in seguito ad una discussione in un tweet del direttore delle comunicazioni dell’ufficio presidenziale turco, Fahretton Altun, il quale aveva postato una foto di Hagia Sophia con la scritta: «Ci manchi. Ma abbiate pazienza. Lo faremo insieme».
La notizia del tweet ha avuto una grande eco sulla stampa turca, compresa l’affermazione che il popolo turco aspetta con “impazienza” che l’edificio diventi nuovamente una moschea.
Circolava l’idea che Hagia Sophia da museo potesse diventare una moschea già il 29 maggio, anniversario della conquista ottomana della capitale romana dell’Oriente, da parte degli ottomani.
L’argomento è continuamente evocato nella politica interna turca. Per esempio, il 24 marzo dello scorso anno, Recep T. Erdoğan, poco prima delle elezioni municipali di Istanbul, aveva dichiarato che la trasformazione di Hagia Sophia in una moschea era un’«attesa di tutta la nazione turca e del mondo musulmano».
Hagia Sophia
L’attuale Hagia Sophia fu costruita tra il 532 e il 537 d.C. su ordine dell’imperatore Giustiniano il Grande. Non è solo l’ultima delle grandi chiese tardo antiche, costruite a partire da Costantino il Grande nell’impero romano, ma nella sua unicità architettonica, è spesso considerata come una chiesa senza modelli e senza imitazione.
La cupola con i suoi 33 metri di campata poggiata su quattro basi portanti rimane fino ad oggi la più grande cupola della storia dell’architettura ed è considerata, per la sua particolare armonia e le sue proporzioni, una delle più importanti creazioni architettoniche di tutti i tempi. Per la sua speciale struttura – nella cui realizzazione gli architetti Isidoro di Mileto e Anthemios di Tralles si sono spinti fino ai limiti delle possibilità tecniche della tarda antichità – è uno degli edifici più significativi della storia.
Hagia Sophia era la cattedrale di Costantinopoli e il centro religioso del mondo ortodosso. Progettata come edificio di importanza universale, fu anche per quasi 1000 anni un centro cristiano-spirituale universale.
A questo riguardo, si ignora spesso che Hagia Sophia deve essere considerata insieme ad altre due chiese monumentali di Costantinopoli: l’Hagia Irene nel Palazzo Topkapi (oggi una sala da concerto con un’acustica unica) e l’Hagia Dynamis (praticamente scomparsa). Il programma di questi tre luoghi di culto, realizzati in una prima versione dall’imperatore Costantino il Grande, aveva lo scopo di simboleggiare tre proprietà di Dio – Sapienza, Pace, Potere.
Dopo la conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani nel 1453, le insegne cristiane e le decorazioni di Hagia Sophia furono rimosse o ricoperte con intonaco e successivamente la basilica fu predisposta, con il nome di “Aya Sofia”, come moschea imperiale degli ottomani (anche Costantinopoli non era d’altronde chiamata Istanbul, ma nei documenti ottomani recava il nome di “Konstantiniye”).
L’“Aya Sofia” ebbe un grande influsso sullo sviluppo dell’architettura sacra ottomana.
In questi ultimi anni ci sono state ripetutamente delle proposte di restituirla alla Chiesa ortodossa per essere utilizzata nuovamente come cattedrale di Costantinopoli. In Turchia a sostenere questa soluzione è stata soprattutto la deputata kemalista armena Selina Özuzun Dogan: nativa di Istanbul, figlia del vicesindaco di Bakırköy, Yervant Özuzun, dopo aver studiato legge a Istanbul, iniziò la carriera in uno studio legale come esperta di fondazioni religiose (“vakiflar”) delle minoranze. Il 7 giugno 2015 fu eletta alla Grande Assemblea nazionale turca. In diverse occasioni si oppose decisamente ai tentativi di aprire Hagia Sophia al culto musulmano.
Speranza per il monastero di Sumelà
Mentre si torna a disputare su Hagia Sophia, si profila invece uno sviluppo positivo riguardo al monastero di Sumelà, situato a sud di Trebisonda. Inizialmente si diceva che anche quest’anno il patriarca ecumenico Bartolomeo I non avrebbe potuto compiere le celebrazioni a Sumelà nella grande festa mariana della “Dormizione”, il 15 agosto, perché erano “ancora in corso” i lavori di restauro. Nel frattempo, il ministro della cultura turco Mehmet Nuri Ersoy ha annunciato di sperare che il monastero situato in una scoscesa valle montagnosa sarà nuovamente accessibile in tempo – fine giugno, inizio luglio – prima della festa della “Dormitio della madre di Dio” (Koimesis tes Panagias).
La fine dei lavori di ripristino – in corso da cinque anni – è stata ritardata a causa degli effetti della pandemia del coronavirus. Nella stretta valle montana c’erano state inoltre molte frane, rendendo necessario l’impiego di operai particolarmente addestrati.
Dal 2010 al 2015 Bartolomeo aveva potuto celebrare ogni anno a Sumelà la divina liturgia con i pellegrini venuti per l’occasione da tutte le zone limitrofe del Mar Nero, ma anche da tutta la diaspora, dalla Russia e dal Caucaso (con ricadute molto positive per l’industria turistica del Ponto).
Il monastero di Sumelà era stato fondato nel 386 e per molti secoli costituì il più importante luogo di pellegrinaggi sul Mar Nero, soprattutto per venerare l’icona di Maria, attribuita all’evangelista san Luca. Ci sono molte versioni su come l’icona giunse a Sumelà. Oggi si trova in Grecia.
Dopo la fine della breve Repubblica del Ponto, nel 1923 tutti i cristiani greci e armeni del Ponto dovettero lasciare il paese, compresi i monaci di Sumelà.
Per decenni il monastero di Sumelà rimase un cumulo di rovine, fin quando nel 1972 fu dichiarato dal governo di Ankara monumento nazionale.
Nel 2010, su richiesta del patriarca Bartolomeo, per la prima volta, il 15 agosto, vi poté essere celebrata la divina liturgia. Durante la celebrazione il patriarca ecumenico davanti a migliaia di fedeli disse testualmente: «Dopo 88 anni la Vergine Maria non piange più». 88 anni prima, il 15 agosto 1922, era stata celebrata solennemente per l’ultima volta a Sumelà la festa della “Dormitio della Madre di Dio”.
Gli edifici più antichi del monastero sopravissuti nella romantica valle di Trebisonda risalgono all’epoca della rinascita dell’impero bizantino sotto la dinastia dei Comneni che governarono a partire dal 1204. Diverse incoronazioni imperiali ebbero luogo a Sumelà.
Anche dopo la conquista ottomana nel 1461, il monastero rimase un centro spirituale e culturale, sostenuto anche dai sultani con generose donazioni. Nel secolo 19° fu compiuta un’ampia ristrutturazione, attirando pellegrini cristiani e musulmani da tutta l’Asia minore, ma anche dalla Russia e dal Caucaso.
Per i greci del Ponto, che parlavano un greco classico, l’icona di Maria di Sumelà aveva un significato tutto particolare. Anche negli anni difficili dal 1914 al 1923, quando decine di migliaia di ortodossi del Ponto furono massacrati dai governanti Ittihiadisti o Kemalisti, l’icona della Madre di Dio di Sumelà rappresentò sempre un grande “segno di speranza”.