La guida della rivoluzione iraniana, Ali Khamenei, e il suo braccio operativo per tutto il Levante arabo allargato, da Gaza a Baghdad, il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah, sono chiamati in queste ore alla decisione più importante della loro vita: intervenire o meno nel conflitto in corso tra Israele e Hamas? L’ultima parola è di Khamenei. Cosa decideranno? Sino ad ora hanno evitato di intervenire, ma i fatti mutano rapidamente e con essi le possibili decisioni.
La risposta non la possiamo dare noi, ma è utile capire dove e come siano giunti a questo punto. Loro guidano l’esportazione della rivoluzione khomeinista, rivoluzione teocratico sciita, la famiglia islamica in urto con quella maggioritaria, sunnita, cui aderisce Hamas. Dobbiamo ripercorrere il passato recente e remoto per farci un’idea.
Primavera araba
La prima memoria che si impone è quella del 2011, la Primavera araba, le piazze che come un’onda continentale lanciarono lo slogan «il popolo vuole la caduta del regime», così respingendo la teocrazia alla Bin Laden o alla Khamenei, con la quale, in molti, avevano pur simpatizzato. Lo slogan non diceva: «i musulmani vogliono la caduta dei regimi», al plurale, bensì: «il popolo vuole la caduta del regime», al singolare, cioè proprio la caduta di ogni regime vigente, in quel posto in cui si stava manifestando.
Dunque, all’impianto teocratico si opponeva quello democratico. Un popolo era quello tunisino, oppure quello egiziano, e così via: non quello arabo o quello islamico in generale. Con ciò si accettava l’idea di Stato nazionale, non tribale o confessionale-imperiale. Due scelte decisive che di fatto sfidavano la visione islamista di Khamenei e Nasrallah.
La seconda evidenza vede oggi i Paesi che hanno lanciato quella sfida tutti in rovina, soprattutto nella parte del Levante arabo allargato, cioè da Beirut a Damasco a Baghdad, unitamente allo Yemen: un mondo ridotto a una distesa di macerie sottoposte al controllo imperiale e teocratico delle milizie persiane (solo nello Yemen dopo anni feroci si tenta la tregua). Le milizie persiane – ritengo di doverle definire così piuttosto che milizie iraniane – hanno il loro riferimento davvero nell’impero persiano, per ricostituirlo dopo la sconfitta del 331 a.C. inflitta da Alessandro Magno a Gaugamela.
Respinto da Alessandro Magno al di là dell’antica Mesopotamia, quell’impero si trovò ristretto alla Persia, islamizzata dopo le conquiste arabe che diedero vita – tra Mesopotamia e Mediterraneo – al loro impero arabo e confessionalmente sunnita (la maggioranza dell’islam), poi assorbito in quello ottomano. I persiani non si rassegnarono e diffusero dopo l’islamizzazione un islam tutto nuovo, persianizzato, non perché sciita – la minoranza islamica che è tuttora religione di Stato in Iran – bensì perché intriso di novità sino ad allora sconosciute all’islam storico, ad esempio la valenza del numero 12: da cui i dodici imam, l’ultimo dei quali, il nascosto, ovvero il né vivo né morto, bensì il presente nell’intra-tempo, pronto a tornare alla fine dei tempi.
Questo tempo mediano è divenuto fondamentale nella teologia khomeinista. I martiri e gli attentatori suicidi − creazione della teologia khomeinista sconosciuta all’Islam storico se non per una minuscola setta eretica − non muoiono, ma raggiungono l’imam nascosto nell’intra-tempo, da dove contribuiscono ad accelerare la fine dei tempi e a favorire l’arrivo dell’ultimo giorno, quando la giustizia divina si compirà per sempre.
Se questa visione è prettamente khomeinista, lo sciismo, di per sé, è un’altra cosa: come noto è la confessione islamica minoritaria, nata nei conflitti tra gli eredi di Maometto, tutti arabi a quel tempo. La discriminazione degli eretici sciiti è dunque ben precedente alla riforma khomeinista.
Nel sangue dei padri
Tramontato l’impero ottomano, con la nascita degli Stati nazionali il confronto è tornato soprattutto tra arabi sunniti e persiani sciiti, generando un evidente problema: gli arabi sciiti sono arabi ma non sunniti, sono sciiti ma non persiani. Per effetto della discriminazione nei due sensi, si definì l’ossatura nuova della opposizione politica, a difesa dei discriminati, ma nel nome del comunismo. Una novità spesso rimossa ma importante per tutto il Levante allargato, che vi ritrovava un’espressione sua propria, cioè interconfessionale. Ma con il tramonto del comunismo si affermò il khomeinismo nel verso della rigida appartenenza confessionale. Alla guida del movimento arabo sciita giungevano i pasdaran e miliziani organizzati da Tehran, per il controllo imperiale dei territori.
Dunque: come è possibile che oggi un gruppo del più radicale estremismo sunnita – Hamas – sia fidelizzato, finanziato e armato dall’Iran khomeinista? Ricordo solo che questa spaccatura è tale perché non nasce nella teologia ma nel sangue dei padri dello sciismo (come di altri leader islamici prima di loro).
La questione è enorme: non si può non cogliere la prevalenza nascosta del disegno imperiale, su tutto il Levante arabo allargato; dunque, il conflitto islamico che ha ridotto in macerie il Levante arabo passa da anni tra gli eredi dell’impero persiano – che queste terre conquistò in tempi lontani – e quelli dell’impero arabo che in queste terre nacque secoli dopo. Gli eredi in questione sono l’Iran e l’Arabia Saudita: casa madre dello sciismo persiano il primo e del sunnismo arabo il secondo.
Ecco perché per capire questa strana convergenza va ricordata l’opera dell’ideologo comune che va sotto il nome di Sayyd Qutb, egiziano, nato nel Paese che ha dato i natali all’islam politico sunnita.
Qutb fu fatto giustiziare in un penitenziario egiziano da Nasser. La figura di Nasser non può essere rievocata qui in poche righe; ricordo soltanto che il suo slogan era: «Nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia». A prefigurare società annichilite e ridotte al silenzio in ragione del primato del conflitto arabo contro Israele. Questo il pensiero imperante da quelle parti, sino al 2011; sino, appunto, all’urlo della piazza: «Il popolo vuole la caduta del regime».
Qutb era fortemente impegnato sul fronte della giustizia sociale in chiave islamista. Grazie ad un compagno di scuola, divenuto ministro, fu mandato a studiare negli Stati Uniti. Era un giovane brillante. Se ne vedono le foto in giacca e cravatta nei campus americani. Qualche biografo accenna a una delusione personale in America. Di certo tornò in Egitto con un atteggiamento più radicale, convinto della superiorità tecnologica ma anche del degrado morale dell’Occidente.
Trasformazione repentina e impressionante
Amin Maalouf, nel suo stupendo saggio Il naufragio delle civiltà, racconta di un’assemblea affollatissima che scoppiò in risate quando Nasser raccontò di aver rotto i negoziati con i Fratelli Musulmani perché, per votarlo, quelli gli avevano chiesto di imporre il velo alle donne. Allora i campus universitari erano in mano a giovani con pantaloni a zampa d’elefante ed idee «marxisteggianti».
Lo slogan «nessuna voce sopra la voce della battaglia» – coniato da Nasser quando fece arrestare e giustiziare Sayyid Qutb – è divenuto quello dei terroristi islamisti: anche Hamas e Hezbollah dicono e pensano: «Nessuna voce sopra la voce della battaglia». Questo induce in equivoci, perché è difficile negare che, come osserva sempre Amin Maalouf, in Occidente la voce di questo islamismo radicale sia fraintesa da chi – correttamente – vi scorge proprio gli echi del terzomondismo del loro nemico Nasser.
Osserviamo il manifesto fallimento della promessa nasseriana, che pure aveva convinto tanti del popolo: «Il regime vi distribuirà i dividendi della de-colonizzazione»: invece, quei dividendi, non arrivarono: i regimi li hanno messi nelle tasche di ristrettissime élite. Tale fallimento politico di Nasser − che mai intascò una sola moneta − ha dato potenza agli islamisti di Qutb e alla loro certezza che solo la legge religiosa, la sharia, avrebbe potuto realizzare l’attesa giustizia sociale.
Fu questo fallimento a causare la rapida trasformazione dei giovani che nei campus ridevano dei Fratelli Musulmani in universitari egemonizzati dai Fratelli con l’ideologia «qutbista». È avvenuta una trasformazione repentina e impressionante, contemporanea al khomeinismo: teocrazia e scontro frontale con l’Occidente immorale, e avanti!
La superiorità tecnologica e l’immoralità occidentale sono spiegate da Qutb. Per capire le sue parole, occorre entrare nel termine arabo Jahiliyya, cioè nella ignoranza del Messaggio di Dio che caratterizzerebbe il mondo prima di Maometto. Ecco la tesi, fortissima, di Qutb:
«Se guardiamo alle fonti e ai fondamenti degli stili di vita contemporanei balza all’occhio che il mondo intero è immerso nella Jahiliyya, e che tutti gli agi materiali e le invenzioni della tecnica non riducono questa ignoranza. È una Jahiliyya basata sulla ribellione alla sovranità di Dio in Terra, una Jahiliyya che trasferisce all’uomo uno dei massimi attributi di Dio, ossia la sovranità: e rende alcuni uomini signori degli altri uomini. Non è più la forma semplice e primitiva dell’antica Jahiliyya, perché ha assunto la forma della proclamazione del diritto di creare valori, stabilire per legge le norme del comportamento collettivo e scegliere qualsiasi modo di vita appartenga all’uomo, senza tener conto di quanto prescritto da Dio».
«L’ecumenismo dell’odio»
Questo è anche il cuore pulsante della svolta teocratica khomeinista contro l’aberrazione occidentale. Khomeini, che tradusse Qutb, ha scritto: «Crediamo nell’opera di governo e crediamo nell’esigenza del Profeta di nominare un successore dopo di lui, come egli appunto fece», anche se, nei fatti, il primo califfo non fu nominato da lui. E prosegue: «L’esigenza di un successore attiene all’applicazione delle leggi perché nessuna legge viene rispettata se non c’è chi ne cura l’esecuzione. Ecco perché l’islam decise di istituire un potere esecutivo per applicare le leggi di Dio. Il Profeta – che Dio lo benedica – fu l’esecutore della legge. Punì, tagliò le mani dei ladri, frustò, lapidò e governò secondo giustizia. Per atti del genere c’è bisogno di un successore». Questo successore, per Khomeini, è Khomeini stesso.
A questo punto, mi sembra di poter sostenere che anche nell’islam – usando l’espressione coniata da padre Antonio Spadaro e da Marcello Figueroa nel loro saggio di anni fa sull’alleanza tra fondamentalismo «evangelicale» ed estremismo cattolico – è al lavoro «l’ecumenismo dell’odio», in versione islamica, sciita-sunnita: non convengono su chi debba guidare l’islam globale, ma senz’altro convengono contro chi vada scagliato e in che modo.
Mi permetto di presentare una tesi sulla data dell’attacco di Hamas: tutti hanno notato che fosse il 50° anniversario dell’attacco arabo a sorpresa contro Israele del 1973. Perché? Il messaggio è chiaro: «Siamo noi, i teocratici, che oggi sanno mettere in crisi il nemico, mentre le corone arabe (i sauditi) vogliono farci la pace».
«Nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia». Ora però l’attesa, il possibile guadagno tattico, si confrontano con la decisione più importante: mettere in gioco tutto il loro potere in un rischio impari? O rischiare di perdere la loro teocratica «credibilità»?