Un giornale del Qatar, Paese che fa parte del terzetto dei mediatori nel processo negoziale, con Stati Uniti ed Egitto, che tenta di far proclamare il cessate il fuoco a Gaza, scrive che la delegazione israeliana giunta al Cairo per l’odierno tentativo finale di trovare un accordo tra le parti sarebbe giunta con una nuova proposta.
Negoziati: possibile novità
La proposta riguarderebbe l’ormai famoso corridoio Filadelfia, la sottile striscia di terra a cavallo del confine tra Gaza ed Egitto, dove Israele – per impedire traffici di armi – chiede di mantenere una propria presenza militare, contro la proposta Biden, nella quale si parla invece di un completo ritiro israeliano da Gaza. Israele proporrebbe ora di farlo sorvegliare da un contingente ONU, con progressivo ritiro dei militari israeliani. Sarebbe prevista anche una qualche presenza dell’Unione Europea.
La proposta, che non trova conferme da Israele, da dove il premier Netanyahu aveva ribadito la sua posizione, cambierebbe molto il quadro. Non si sa cosa ne pensi l’Egitto, ma è difficile pensare che si assumerebbe la responsabilità di una rottura. Resta l’interrogativo Hamas, che ha sempre richiesto la conferma del completo ritiro di Israele dalla striscia. Con la presenza ONU e l’impegno a un ritiro graduale la situazione cambierebbe, anche in base a quale gradualità sia.
Questo aggiungerebbe valore ad un’altra notizia: dopo averlo annunciato ufficialmente intervenendo davanti al Parlamento turco, il presidente dell’Autorità Palestinese ha ribadito ieri che nei prossimi giorni si recherà a Gaza passando per l’Egitto, dal valico di Rafah.
La posizione ufficiale di Abu Mazen, se quanto scrive il giornale qatarino fosse vero, potrebbe proiettarsi verso un nuovo assetto politico palestinese a Gaza. Tutto è incerto in questo negoziato e prendo la voce che giunge dal pur importantissimo Qatar come tale. Si vedrà tra poco. Così mi soffermo su Abu Mazen.
Il leader dal nome assoluto
Leggere questa notizia mi ha fatto rendere conto improvvisamente che tutti lo chiamano così, Abu Mazen, sebbene sia ben noto che il suo vero nome è Mahmoud Abbas. Abu Mazen vuol dire «padre di Mazen», e rimanda alla tradizione popolare diffusa in tutti i Paesi arabi di farsi chiamare in questo modo. Lo stesso Arafat, che non ha avuto figli fino alla tarda età quando è nata sua figlia, era conosciuto sin da giovane con il nome di Abu Ammar, «il padre di Ammar».
Il figlio infatti non deve necessariamente esistere, essere nato, ognuno può scegliere il nome del figlio che vorrebbe o che avrebbe voluto avere. Visto che i leader dell’OLP, e in particolare di al Fatah, avevano tutti questo «secondo nome», lo si è spesso presentato come «nome di battaglia», un escamotage per coprire la propria identità. E questa è parte della verità.
Infatti, in Siria e in Iraq, ad esempio, molti se non tutti i capi dell’Isis, ad esempio, si facevano chiamare così per coprire la propria identità. Infatti molto spesso cambiavano appellativo per rendere più difficile il lavoro di chi li ricercava. Ma questo non è tutto: l’identità di Mahmoud Abbas è ben nota, eppure tutti lo chiamano Abu Mazen, come Arafat veniva chiamato, molto frequentemente, Abu Ammar, anche sui media occidentali.
Questa regola però sembra non valere per i capi di Hamas. Alcuni quadri intermedi del gruppo, ad esempio il loquace Abu Obeida, lo usano. Forse per motivi di sicurezza, forse no. Ma i leader, che pure dovrebbero tenere alla loro popolarità sapendo che la loro identità è ormai nota, non lo fanno.
L’attuale capo di Hamas, Yahya Sinwar, è sempre chiamato così, pur avendo l’appellativo di Abu Ibrahim. Ma non mi risulta che ufficialmente Hamas o i giornali arabi lo usino, e per il poco che valga non ho mai saputo quale fosse l’appellativo di Ismail Hanyeh, il predecessore di Sinwar, recentemente ucciso mentre era in visita ufficiale a Tehran.
«Uno di una coppia»
Sarà un dettaglio, ma è interessante, perché la scelta di farsi chiamare così è molto popolare. Per tante strade di tutto quel mondo si può facilmente sentir chiamare con uno di questi appellativi un passante, un commerciante, una persona insomma conosciuta da chi gli rivolge la parola.
Culturalmente parlando, l’usanza deriva dal fatto che il vocabolo «individuo» in arabo propriamente non esiste. O meglio, esiste, è il vocabolo «fard», che però vuol dire «uno di una coppia». È come se in quella lingua, e quindi in quella cultura, l’individuo esistesse solo completato in un’altra persona, che la tradizione popolare araba ha scelto nel figlio, avuto o desiderato.
Il discorso, infatti, non vale solo al maschile: anche per le femmine è così. La cantante araba più nota di sempre è l’egiziana Um Kalthoum, «la madre di Kalthoum», amatissima nel mondo arabo sin dai tempi di Nasser. Dunque, il «nome di battaglia» è spesso tale, ma trae origine da una tradizione popolare e da un dato culturale rilevante.
Il senso dell’appellativo non è lo stesso di quello dei nomi propri che ricostruiscono la discendenza di una persona al fine di identificarla. Ad esempio, il principe della corona saudita si chiama Muhammad bin Salman, che significa Muhammad figlio di Salman. Ma se guardiamo ai nomi ufficiali dei monarchi sauditi il meccanismo si fa più chiaro: il primo monarca saudita, della tribù dei Saud, si chiamava ʿAbd al-ʿAzīz ibn ʿAbd ar-Raḥman ibn Fayṣal Āl Suʿūd, ovvero Abdel Aziz figlio di Abdel Rahman figlio di Faysal dei Saud.
Dunque, i nomi ufficiali servono a ricostruire l’identità in assenza di un vero e proprio cognome. Al presente le cose sono cambiate, ma è molto frequente trovare nei nomi completi, anche odierni, al posto del nome della tribù quello della città d’origine. Con l’appellativo che specifica solo il nome del figlio, non per forza esistente, il meccanismo è chiaramente diverso. Di padri di Muhammad, o di Nabil, ce ne saranno milioni.
Il superamento di una tradizione
Questo rapporto della cultura araba con il concetto di «individuo» è molto interessante, soprattutto per il significato autentico del termine «fard». È nel figlio, cioè nel futuro, che un essere umano si completa? È una tesi che ho sentito e che mi ha interessato. Mi ha dunque sorpreso rendermi conto all’improvviso che i leader di Hamas non seguono tale tradizione. Il loro movimento origina nel più vasto mondo dei Fratelli Musulmani, che ha una storia assai più lunga e articolata di quella di Hamas, comunque legata alla cultura popolare, tradizionale.
Una spiegazione elementare potrebbe essere la seguente: da sempre rivali, anche con note vicende sanguinose tra di loro nella stessa Gaza, i leader di Hamas potrebbero aver scelto di differenziarsi chiaramente dai rivali di al Fatah (il partito di Arafat) e dell’OLP (organizzazione di cui al Fatah è sempre stata la forza egemone) anche segnando questa discontinuità culturale, soprattutto nella Striscia di Gaza.
La storia di al Fatah è stata fatta da Abu Ammar, Abu Yihad, Abu Ihad, Abu Mazen, tutti nomi che hanno segnato le cronache del tempo e che continuano a farlo. Con Hamas mi è risultato non semplice apprendere, ad esempio, che Yahya Sinwar sia Abu Ibrahim. A Gaza sarà certamente noto così, ma lo stesso sistema mediatico arabo, per quanto mi risulti, non usa questo appellativo per riferirsi all’attuale leader di Hamas.
Basta una rivalità a spiegare un distanziamento da una tradizione araba così nota, così popolare, e culturalmente significativa? Non ho la risposta. E tuttavia notare in un movimento che ha avuto origine nella «popolarità» il superamento di una tradizione così autenticamente popolare mi è apparso un dato rilevante. E bisognoso sicuramente di una comprensione migliore di quella che io posso offrire.