Il virus in Ecuador

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La situazione qui in Ecuador nel corso di queste ultime settimane non ha fatto che aggravarsi. Il numero ufficiale dei contagiati ha raggiunto oggi  il numero di 23.240 persone e quello dei morti certi da Covid-19 è giunto a 663. A quest’ultimo numero vanno sommate almeno 1.100 persone morte per “cause correlate” al virus. Questi sono ovviamente i numeri resi noti dal governo, ma tutti noi continuiamo a chiederci se i dati ufficiali siano attendibili. La risposta, purtroppo, è senz’altro negativa.

In tutto il mondo sono rimbalzate notizie, foto e video che documentano una realtà ben diversa. Nella sola città di Guayaquil – la città più grande e popolata dell’Ecuador posta sulla costa dell’oceano Pacifico – i numeri sono sicuramente più alti. Il nascondimento della realtà fa probabilmente parte della manipolazione e, insieme, della incapacità politica del governo ecuadoregno. Da quel che sento, la cosa non riguarda solo il questo governo.

Le misure di sicurezza in queste settimane si sono ulteriormente intensificate con l’uso obbligatorio delle mascherine, la circolazione veicolare ristretta a un solo un giorno alla settimana e il blocco totale della circolazione pubblica nei fine settimana. Il ministero dell’educazione ha dichiarato già concluso l’anno scolastico. Gli ospedali pubblici ricevono solo i casi gravi di malattia respiratoria e le urgenze inevitabili. I controlli sono strettissimi  all’ingresso dei mercati di alimentari. Continua il coprifuoco dalle 14 alle 5.

La mia parrocchia in montagna è tornata a ripopolarsi di tutte quelle persone, specie giovani, che si erano trasferite temporaneamente o stabilmente nelle grandi città.  Sono tornate sia perché non si fa scuola, sia perché tante aziende hanno chiuso. Il risultato immediato è stato che le povere case in cui ormai vivevano una o due persone sono ora abitate da 10/15 persone. Le condizioni igieniche sono perciò chiaramente di molto  peggiorate. Pensare che, in questo modo, si possa contenere il contagio isolando le abitazioni mi sembra davvero improbabile.

La gente povera della sierra peraltro continua a non capire fino in fondo la gravità del problema.  Si comporta come al solito per vivere e sopravvivere. Per questo cerca di corrompere le autorità per avere la possibilità di muoversi liberamente. La miseria fa più paura del virus. Va considerato che i generi alimentari di prima necessità stanno già scarseggiando.

Le istituzioni stanno sostenendo la popolazione indigente con pacchi alimentari. L’efficienza e la trasparenza della distribuzione non sono delle migliori. Ovviamente c’è chi approfitta e chi più soffre. Niente di nuovo: i più poveri e gli indifesi restano sempre gli ultimi. Per persone allo stremo – anziani soli, disabili, ammalati e altre – resta per ciò solo il ricorso la parrocchia. Io non posso certo sottrarmi: sono qui per questa povera gente. Con i miei volontari della Casa parrocchiale sono sostenuto – con grande generosità – sia dai giovani dell’Operazione Mato Grosso sia da tanti amici e benefattori che mi consentono di distribuire molti generi.

L’interrogativo che mi accompagna quasi costantemente in questi giorni è tuttavia il seguente:  come posso far avvertire prossimità cristiana a questa mia gente stando lontano da loro, con mascherina e guanti, impegnato a distribuire roba e a celebrare l’Eucaristia a porte chiuse? Come è possibile donare la vita del Signore e noi stessi stando qui tra quattro mura? Confesso che questo interrogativo mi angustia. Sto chiedendo ai volontari che vivono con me nella Casa di pregare molto per i nostri parrocchiani e per rappresentare tutti davanti al Signore.

Credo di non aver mai vissuto, sino ad ora, una settimana santa tanto intensa quanto quest’ultima. Mai ho sentito l’umanità sofferente di Gesù così vicina alla mia e alla nostra  umanità sofferente. E mai – come in questi giorni di cupa paura – ho sentito rivolte anche a me le parole di Pasqua alle donne: “non temete!”.

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