L’impervia rinascita del Libano

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Il 4 aprile scorso Morgan Ortagus, vice inviato speciale degli Stati Uniti per il Medioriente, è arrivata a Beirut per una serie di colloqui con le istituzioni libanesi. A tema, l’auspicata “normalizzazione” dei rapporti con Israele, l’attuazione di riforme globali per combattere la corruzione e rendere il governo «aperto e trasparente» per il benessere e la sicurezza dei libanesi.

Soprattutto, Ortagus ha chiesto il disarmo completo di Hezbollah vincolando, tra le righe ma non troppo, l’elargizione di finanziamenti per la ricostruzione del Paese, devastato dagli ultimi mesi di bombardamenti israeliani, al raggiungimento dell’obiettivo.

Frattanto Israele occupa tuttora il sud del Libano, contrariamente a quanto previsto dagli accordi internazionali patrocinati dagli Stati Uniti stessi, e bombarda continuativamente il Paese da tre settimane provocando quasi ogni giorno vittime civili.

Parliamo della situazione con Mauro Pompili, giornalista freelance residente a Beirut.

– Mauro Pompili, cosa sta succedendo in Libano?

Beirut e il Libano attraversano una fase complessa e instabile della loro storia. Probabilmente questa frase potrebbe raccontare qualsiasi momento della storia del Paese dei Cedri dalla sua indipendenza, nel 1943, ad oggi, ma attualmente la situazione è davvero complessa e difficile da interpretare.

Da un lato, si potrebbe parlare di una rinascita delle istituzioni libanesi: in pochissimo tempo, dopo il cessate il fuoco con Israele, è stato eletto il Presidente della Repubblica, nominato il Primo Ministro e formato il governo. Tutti, almeno a parole, impegnati in profonde riforme che portino a un nuovo Libano.

Dall’altro lato, abbiamo, però, un Paese che continua a subire gli attacchi quotidiani di Israele, senza che la comunità internazionale intervenga, con un esercito nazionale assolutamente non in grado di sostenere qualsiasi confronto con le forze ebraiche.

A questo si deve aggiungere la pesante crisi economica, aggravata dall’ultima guerra, mentre non arrivano ancora i fondi promessi per la ricostruzione. Tutto inserito in un quadro regionale fatto di tensioni crescenti che non sembra promettere nulla di buono.

In conclusione, credo si possa dire che a Beirut non si nutrono grandi speranze sulle possibilità del Presidente e del governo di riuscire a portare a termine nulla di concreto prima della prossima guerra; una prossima guerra che praticamente tutti si aspettano e che in molti immaginano come regionale e peggiore della precedente.

Nel frattempo, chi vive a Beirut può ammirare l’incredibile capacità di ricominciare del popolo libanese: gli sfollati sono tornati alle loro case, anche se ridotte in macerie, la piccola economia cerca di ripartire e, come ogni volta, questo Paese sembra davvero l’Araba Fenice che rinasce dalle sue ceneri.

– Mentre l’inviato americano signora Ortagus chiede alle istituzioni libanesi di disarmare Hezbollah e di stringere accordi con Israele, facendosi di fatto portavoce dei desiderata dello Stato Ebraico, l’IDF continua a bombardare il Paese. Trattative diplomatiche e azione militare hanno lo stesso obiettivo o rivelano una contraddizione interna al governo israeliano?

Credo che, per Israele, in questo momento non ci sia differenza tra diplomazia e azione militare nei confronti del Libano. Molti ritengono che la normalizzazione dei rapporti desiderata da Israele abbia l’obiettivo principale di arrivare, attraverso la definizione dei confini di terra, alla definizione di quelli marittimi, un passo essenziale per procedere allo sfruttamento dei grandi giacimenti di gas e petrolio che il Mediterraneo ospita di fronte ai due Paesi. Tra l’altro, non si deve dimenticare che anche nel mare antistante Gaza c’è un grande giacimento di combustibili fossili.

Quindi, in questo momento lo Stato ebraico, che occupa una parte del Libano, ritiene di poter trattare da una posizione di forza e di poter ottenere molto di più di quanto gli accordi internazionali attualmente prevedono.

In ballo, infatti, ci sono alcuni territori del Golan e, in particolare, la regione chiamata Fattorie di Sheeba, aree che, per le Nazioni Unite, appartengono alla Siria e al Libano. Sono regioni occupate da Israele, che non vuole lasciarle perché ricche di un bene molto prezioso in questa parte del mondo: l’acqua.

– Oltre a Gaza, Israele in questo momento sta bombardando Libano e Siria, oltre ad occuparne militarmente porzioni di territorio. Quale strategia persegue? Che senso ha tenere tutti questi fronti aperti, nell’ottica israeliana?

Non conosco a fondo la politica interna israeliana, ma ritengo che questa aggressività sia dovuta a una miscela di fattori.

In primis, risolvere i problemi di politica interna: le guerre sono un ottimo tappeto sotto cui nascondere i propri problemi; poi, cogliere un momento di debolezza dell’Asse della Resistenza guidato dall’Iran, in un momento in cui la Russia principale alleato è impegnata in Ucraina, per cercare di sferrare un colpo mortale ai propri nemici.

Infine, cercare di realizzare quel sogno della “Grande Israele”, che non è appannaggio solo della destra estrema del Paese, ma che è collante della vita di uno Stato giovane nato su dei pilastri ben lontani dalla democrazia.

Israele nasce sulla paura per quanto di orribile il popolo ebraico aveva subito con l’Olocausto, nasce con una guerra di occupazione e con la cacciata di un popolo; vive, dunque, da sempre nel terrore di essere attaccato da chi è diverso.

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