Si sa poco del Medio Oriente e della storia dell’Iran. Per partecipare e seguire i movimenti di protesta che stanno attraversando tutti i confini e che hanno coinvolto anche un evento globale e mediatico come il campionato mondiale di calcio (la cui decisione di giocarlo in Qatar ha fatto molto discutere, per la posizione di quella nazione sui diritti umani), bisognerebbe invece conoscere bene e approfondire.
Proprio per dipanare la matassa e fare luce su alcune questioni, sciogliere più nodi possibili, è stato organizzato il seminario “Donna, vita, libertà. Un’analisi storico-politica delle recenti proteste in Iran” che giovedì 24 novembre si è tenuto nella Macroarea di Lettere e Filosofia a “Tor Vergata”, organizzato dalle professoresse Lucia Ceci e Sara Borrillo, del Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società, con il prezioso intervento di Paola Rivetti, della Dublin City University, in cui è professoressa associata di Scienze politiche e studiosa della storia dell’Iran; scrive, inoltre, per la rivista “Iranian Studies”.
Il suo discorso si è aperto ricordando come già con la rivoluzione del 1979, in Iran, cominciò un percorso di emancipazione occidentale: le intellettuali iraniane con il “gender jihad”, il femminismo iraniano, si adoperarono per promuovere l’uguaglianza di genere, anche a livello teologico, per contrastare il fatto che, a seguito di quella rivoluzione, erano state adottate delle misure di legge che poggiavano su un approccio di controllo ai corpi, di stampo politicamente e strumentalmente islamico.
Dopo l’omicidio di Mahsa Amini, il 16 settembre, arrestata dalla polizia morale per un ricciolo sfuggito dall’hijab, sono scaturite delle proteste che non sono a sé stanti ma si inseriscono in una traiettoria di dibattito che già era in corso da anni; in realtà, c’è sempre stato fermento, con picchi più o meno alti nel corso del tempo: pensiamo al movimento verde in risposta alla seconda elezione di Mahmud Ahmadinejad (2009) o alle primavere arabe (2010-2011).
La novità sono le rivendicazioni e gli slogan. Prima si protestava contro il caro vita, la gestione covid, la totale assenza dello Stato, inefficace e incapace a rispondere alle più basilari necessità della popolazione o a proteggerla dall’epidemia; dodici anni fa, con le primavere arabe, lo slogan recitava “Dignità, libertà, giustizia sociale”, erano lotte di ridistribuzione economica e di riconoscimento culturale. Oggi si grida “Jin, Jiyan, Azadi”, “Donna, Vita, Libertà”, aprendo una riflessione sull’intersezionalità della lotta, che abbraccia tematiche di genere, appartenenza di classe ed etnica.
Alla base c’è sempre la posizione femminile, ma in che ottica? Come donna da difendere o come soggetto? A questo proposito, Paola Rivetti insiste su un concetto: le donne non vogliono più essere un simbolo, vogliono qualcos’altro.
Già le proteste “anti-patriarcali” vanno a parlare di quel controllo da parte dello Stato sul corpo delle donne, effettuato per esempio attraverso la legge per il ringiovanimento della popolazione, per cui il corpo delle donne era il simbolo “dell’identità-Stato”, dell’onore della famiglia. Ma le lotte precedenti hanno visto le donne sì come motore della protesta, ma una volta “romanticizzato” l’evento, nella classica dinamica post-rivoluzionaria le cose tornavano uguali a prima (“grazie per l’aiuto, ora prepara la cena”).
Mentre ora questo movimento – continua la prof. Rivetti – mette al proprio centro la capacità di autodeterminazione del proprio corpo. La politica femminista in Iran si è finalmente concentrata sulla riforma delle leggi (per esempio, quella sulla custodia dei figli o quella sull’eredità), fondamentalmente è più politicizzata: chiede un cambiamento strutturale, non più solo riforme.
Secondo la prof., sono cambiate le varie anime che compongono la rivoluzione: in primis le persone, come gli uomini che sostengono le donne, donne che tagliano i capelli (gesto dall’enorme significato simbolico per le donne iraniane (qui) o che tolgono il velo non più viste come divisive o foriere di pericolo, per sé e gli altri; sono cambiati i legami con le altre proteste, agendo in maniera intersezionale, con un’unica chiave di lettura: nessuna persona è libera se ci sono degli oppressi, motto alla base di altri movimenti, come “Black lives matter” o il movimento di liberazione curdo, “Jineloji”, la scienza delle donne e della vita libera.
Sullo stesso argomento è stato anche il discorso del prof. Massimo Papa, ordinario di Diritto Musulmano all’università di Roma “Tor Vergata”, tenuto in occasione dell’evento in Rettorato dedicato al 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, organizzato dal CUG, con gli interventi di Virginia Tancredi, Presidente CUG, ed Elisabetta Strickland, Presidente Onoraria CUG, e l’esibizione del corpo di ballo della Scuola di danza Double S Dance Studio diretto da Sveva Mattarino con l’evocativa coreografia “Daisy”.
Secondo il professore, l’emancipazione della donna va di pari passo con la tutela del proprio corpo; quello che chiedono le donne iraniane è di vivere una vita normale, poter accedere a ruoli apicali invece negati, avere spazi di libertà nella vita pubblica.
Il professore richiama a immagine simbolo di questa rivoluzione la foto di un bacio scambiato tra una ragazza e un ragazzo in una via trafficata di Shiraz.
Sia la professoressa Rivetti sia il professor Papa hanno commentato la questione “polizia morale”, sottolineando come sia una forma di repressione, che non gode certo di stima nella popolazione.
La polizia morale è un corpo delle forze dell’ordine iraniano istituito nel 2006 e da subito si è distinta per abusi e violenze, operati con discrezionalità, cambiando le modalità di applicazione delle leggi a proprio piacere: per esempio, anche le regole per indossare l’hijab non sono specificate ufficialmente, è la polizia morale a decidere di volta in volta.
Basti pensare che le eccezioni possono essere fatte, come successe nel caso della matematica iraniana Maryam Mirzakhani, insignita della medaglia Fields, morta a 40 anni per un tumore al seno, e le cui foto senza velo a coprire il capo poterono girare senza problemi. Essendo sempre più spesso al centro del dibattito pubblico, ora c’è una proposta di legge per trasformare la polizia morale in organo amministrativo, per cui non potrà più fare arresti ma solo multe.
All’ultimo conteggio, le vittime erano circa 400, più innumerevoli persone arrestate, di cui tante sottoposte a torture. Il tutto sulle note di “Bella Ciao” cantata in farsi.
- Pubblicato sul sito dell’Università di Roma Tor Vergata.