Cosa sta realmente accadendo in Iran? Cosa sarà? Difficile dirlo senza essere là, senza poterci andare. Ma possiamo farcene un’idea unendo quel che sappiamo degli attuali accadimenti alla ricostruzione della recente storia degli iraniani e del loro rapporto col regime degli Ayatollah.
Evidentemente gli accadimenti di oggi hanno radici profonde nella storia, almeno a partire dalla protesta studentesca del 1999, poi sviluppatasi nel movimento verde del 2009.
Da allora il vertice iraniano sembra rendersi conto che la vera minaccia alla sua stabilità non viene più dall’esterno – come accadde con l’aggressione irachena – bensì dall’interno, soprattutto dopo le successive due ondate di proteste nazionali – nel 2017 e 2018 – capaci di introdurre, a differenza dei moti del ’99 e del 2009, una grande novità: il coinvolgimento dei ceti più poveri, la vera base su cui il regime ha sempre fatto affidamento.
Al riguardo, è molto nota e citatissima la distribuzione di patate ai poveri da parte del presidente Ahmadinejad nella campagna elettorale per il suo secondo mandato.
La ribellione dei giovani
Negato da molti, l’inizio di un vero proprio fermento rivoluzionario, interclassista e intergenerazionale, è paragonabile alla grande primavera araba: quindi una sorta di primavera iraniana. Molti occidentali preferiscono vedere solo illusioni primaverili nel racconto di tali cambi di stagione che non sarebbero mai esistiti, così come considerano fondato il bisogno di stabilità dei regimi petroliferi.
E invece il 2017 e il 2018 in Iran hanno segnato una svolta, perché hanno visto, insieme, la protesta economica degli impoveriti, quella politica dei derubati della libertà, quella giovanile. Della repressione, come sempre, si sono incaricati i Pasdaran, facendo scomparire dalla memoria la ferocia della polizia segreta dello Shah con la disposizione a non conoscere alcun limite. Alcuni mesi fa, è stato denunciato l’impiego di sostanze accecanti contro i manifestanti.
Lentamente è stata destabilizzata la triade che regge il sistema che autorevoli studiosi iraniani dipingono in tal modo: «morte all’America, morte a Israele, velo!».
Il grido «morte all’America» è stato a lungo un riflesso profondo e antico che riporta ai tradimenti delle intenzioni libertarie e nazionali, soppiantate dalla veemenza repressiva dei Pasdaran.
L’urlo «morte a Israele» ha tentato di creare un’ideologia regionale che ha visto, sempre più spesso, ampi settori dell’opinione pubblica chiedersi perché svenarsi per gruppi terroristi all’estero contro Israele piuttosto che per un popolo stremato, quello iraniano.
Ora, con la protesta contro l’imposizione del «velo», si è rotto l’ultimo cerchio. Le giovani voci – spesso minorenni – riescono a raggiungere i ceti poveri – spesso molto più in là con gli anni – e pure la borghesia consapevole della propria marginalizzazione sociale e culturale.
Coinvolgimento delle minoranze etniche
Siamo inoltre dinnanzi a un processo rivoluzionario che coinvolge le minoranze etniche, posto che la prima morte – da cui tutto è partito – ha riguardato una giovane curda Mahsa Amini.
Sono seguiti scontri feroci, non solo nei territori dei curdi iraniani, ma in tante università prestigiose, in tante città e pure in zone popolate da altre minoranze etniche. Stante che le minoranze etniche si trovano soprattutto sui confini e li controllano, si spiega l’ulteriore violenza usata contro il nuovo movimento nel Beluchistan, così odiosa da irrompere su gran parte della stampa internazionale.
Davanti alla prospettiva rivoluzionaria – chiara e di lunga durata – consolidata in consapevolezze convergenti sull’importanza dei diritti umani – quelli delle donne – come della giustizia sociale, è difficile immaginare che il vero dominus del Paese, ossia i Pasdaran, possano pensare di cedere il loro strapotere sulla sicurezza e sull’economia: potrebbero però accettare una riduzione del tasso di integralismo islamista imposto dai mullah.
Dopo Khameney
Mi convincono al riguardo le tesi sovrapposte di due eminenti studiosi, quali Ali Fatollah-Nejad e Karim Sadjadpour: questi vedono uno sviluppo possibile e imminente dopo Khameney. Il successore – quale guida spirituale – potrebbe essere una figura “debole”, diciamo di facciata, sormontata da un potere politico più nazionalista che religioso.
È qualcosa che si può capire – come sostengono – pensando al nuovo corso saudita di Muhammad Bin Salman: meno chador e più nazione.
È quanto emerge pure dalla lettura dell’accuratissimo testo curato da Michael Young per il Carnegie Middle East Center. La protesta del velo non sarebbe dunque l’inizio di un ’68 giovanile iraniano, bensì un nuovo stadio di quella rivoluzione, interclassista e pluralista, che è stata, in realtà, la rivoluzione iraniana dai tempi dello Shah.
Per Fatollah-Nejad, la grande novità – non solo, ovviamente, positiva – rappresentata da Internet, avrebbe creato maggiore disponibilità ad accogliere una volontà popolare diffusa. I Pasdaran sono tuttavia pronti a sovrapporsi una leggera veste nazionalista senza dismettere la barbarie sistematica, quella in grado di produrre gli esiti più tragici, come gli avvenimenti di questi giorni confermano.
La scelta di Khamanei di identificare negli americani e negli israeliani i grandi sobillatori della protesta contro il velo ricalca evidentemente il disegno dei tre indicati cerchi ideologici su cui si fonda il regime: l’odio per l’America, l’odio contro Israele, la centralità del velo.
Se, come è probabile, questo tentativo, come ipotizza Fetollah-Nejad, non potrà funzionare, la prospettiva nazionalista espressa da un potere politico-militare concentrato nelle mani dei Pasdaran apparirebbe quasi obbligata. Nell’attuale contingenza il regime può contare sulla affinità russa. Il resto della comunità internazionale dovrà decidersi, a partire da Stati Uniti e Cina.
E l’Europa? Al momento – mentre le donne europee scendono per solidarietà nelle piazze – nelle stanze di governo si tace.