In un tempo non troppo lontano – prima dell’irruzione dei colonialismi francese, britannico ed italiano – i territori dell’Africa del Nord e del Medio Oriente erano amministrati dall’Impero Ottomano, nel quale convivevano, per lo più pacificamente, arabi, ebrei, cristiani delle più varie appartenenze, popoli stanziali e popoli nomadi.
Oggi, in Gerusalemme, città “santa” per i fedeli delle religioni monoteistiche si ritrovano, rispettandosi, ebrei, cristiani, musulmani, religiosi e “laici”. Gli ebrei a loro volta si rifanno a tradizioni diverse (sefarditi e askenaziti, ma non solo), così come i cristiani delle varie chiese (cattolica, ortodosse, riformate) e i musulmani (sunniti, sciiti, drusi, ecc.).
La guerra crudele che si è riaccesa il 7 ottobre scorso ha colpito e sta colpendo violentemente soprattutto quelle popolazioni, senza distinzioni, con migliaia di vittime civili.
Qui in Europa, sin dall’inizio, le parole d’ordine sono le solite: «cessate il fuoco», per l’immediato, e poi «due popoli, due Stati», quale sempiterna – e sembrerebbe unica – prospettiva di convivenza.
Ma siamo sicuri che la formula possa ancora funzionare? Come è possibile tracciare confini netti che separino persone e comunità così embricate e articolate al loro interno, suddividendo un territorio che è un fazzoletto di terra?
È impossibile, allora, pensare – al posto dei «due popoli-due Stati» – ad una federazione laica, forse di tipo cantonale, nella quale palestinesi, israeliani, etnie ed appartenenze religiose diverse, possano finalmente convivere senza farsi la guerra, ciascuna coltivando la ricchezza della propria tradizione comunitaria senza entrare in conflitto con ogni altra?
Gli esempi storici non mancano. Senza andare troppo lontano nel tempo, faccio l’esempio della ormai lunga storia della Confederazione Svizzera. La stessa Unione Europea – nonostante i suoi ritardi e il suo continuo divenire, non certo perfetto – è nata all’indomani dei massacri e delle rovine di ben due guerre mondiali.
Mi rendo ben conto: dire queste cose, ora, è cosa di pochi “sognatori”. Ma questa umanità – giunta a questo punto – deve poter sognare ancora qualcosa di nuovo e di diverso. Altrimenti non resterà più tempo. Non resterà più nulla.