Tra le analisi sulla guerra tra Israele e Palestina mi pare utile soffermarmi su un aspetto centrale dal punto di vista ideale e simbolico, che può sembrare meno urgente rispetto alla questione di fermare le uccisioni, le ingiustizie e l’odio.
Nella priorità che ha in questo momento la salvezza della vita di molti, ci permettiamo di accennare a un tema che sta sullo sfondo del conflitto sanguinoso che ha visto negli attacchi del 7 ottobre e nella risposta israeliana la sua più recente manifestazione. Si tratta dello sfondo religioso e teologico che, caso per caso, anima o sostiene, giustifica o appoggia, le rispettive rappresentazioni di sé e dell’altro nel conflitto.
Il tema è stato già evocato quando si è citato – nel testo di De Francesco – un hadith escatologico che fa parte del repertorio anti-ebraico: «Non giungerà l’ora sino a quando non combattete con gli ebrei, e persino la pietra dietro la quale l’ebreo si nasconde dirà: Oh Musulmano, c’è un ebreo dietro di me, uccidilo».
In maniera speculare, le conseguenze del sionismo declinato in chiave religiosa sono davanti agli occhi di tutti [1] ed invitano alla rilettura delle importanti opere di Aviezer Ravitzky che ha studiato attentamente l’evoluzione in senso religioso delle idee sioniste.
La questione non è, certo, nuova ma sembra di trovarsi di fronte ora, in piena post-modernità, ad un’alleanza perversa tra senso religioso, teologie di riferimento e percezione della terra, dell’etnia e di un «noi» superiore ed esclusivo. Quando, come ci è capitato di ascoltare ad Hebron, qualcuno afferma che è proprio compito religioso – percepito come dato direttamente da Dio – riprendersi tutta la terra, la presenza dell’altro diviene una presenza demonica, da eliminare religiosamente.
Certamente, la psicologia sociale e la criminologia possono aiutare a decifrare questi fenomeni di violenza collettiva e personale, nondimeno credo valga la pena indagare – per poterlo disinnescare – quel fenomeno per cui il mistero di Dio – rivendicato da tutti i figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani, come l’unico, il trascendente, il sempre più grande – viene singolarmente tribalizzato ed etnicizzato («il nostro Dio»), territorializzato (la «nostra terra santa») e politicizzato («Dio è con noi»).
Sul modo di leggere i testi sacri
Per disinnescare tale paradossale riduzione teologica, che ha disastrose conseguenze interiori e politiche, credo si possa accennare al modo di leggere i testi sacri e alle opzioni di fondo che stanno dietro tali processi di interpretazione. Propongo questa schematica analisi, consapevole che molti – ricordo qui André Wenin, Giuseppe Dossetti, Meir Bar Asher, Jawdat Said, Gian Domenico Cova, Jonathan Sacks – hanno lavorato con grande sapienza in questa direzione.
In primo luogo, fa parte della lettura dei testi la consapevolezza del proprio punto di osservazione e della propria collocazione. Nessuno riflette «a partire da nessun luogo» con tutto quello che questo comporta in termini di parzialità, di questioni non viste e non visibili, di interessi in gioco, di traumi subiti o inferti. Un posizionamento consapevole, sempre nuovamente da guadagnare, aiuta nel coltivare una postura modesta che, a ben vedere, fa parte del patrimonio mistico di ogni grande tradizione religiosa.
In secondo luogo i testi, per quanto legittimamente creduti come ispirati da Dio, sono dentro la storia umana e, quindi, affidati alla responsabilità degli uomini e delle donne. Si tratta di quella storicità essenziale della fede islamica, cristiana ed ebraica: in tal senso le fonti sono come alberi rovesciati che hanno radici profonde nel mistero di Dio, ma la cui terra, il tronco, le foglie e i frutti abitano all’interno di contesti storici precisi. In tale quadro, quando la lettura incontra nei testi la violenza e l’etnocentrismo, la giustizia intesa come vendetta, l’esclusione e l’eliminazione dell’altro, essa è spinta a chiedersi che senso storico abbiano questi aspetti e se siano compatibili con le istanze etiche e religiose di fondo della propria tradizione. Si tratta della domanda su quali e quante dialettiche interne vivono nel proprio testo sacro.
Questo vale anche – ed è un terzo passaggio – per le rispettive tradizioni interpretative che rappresentano l’alveo vitale delle Scritture sacre e mediano, selezionando e trasmettendo, i significati e le chiavi di lettura principali. Il solo fatto che le tradizioni interpretative – nell’Islam, nel Cristianesimo e nell’Ebraismo – siano così ampie e pluralizzate – storicamente e geograficamente – è un potente suggerimento all’interprete che molti sono stati i modi di cogliere le prospettive di verità e che quindi tali modi possono essere strutturalmente parziali, limitati, o anche fuorvianti. Le tradizioni talora sono molto attente e in ascolto dei testi e delle loro profondità, in altri casi li aggrediscono per trovare in essi e giustificare quello che già si pensa.
Sull’emeneutica
Tale lavorio – un quarto punto – può giovarsi di un sostegno incredibile quando chi legge i testi della propria tradizione è consapevole e/o conosce i testi di quelle altrui. È la prospettiva della cosiddetta teologia comparativa: la lettura attenta e immersiva, critica e simpatetica, dei testi appartenenti ad altri «mondi» religiosi e culturali permette di ritornare ai propri con un bagaglio di preziosi insights storici e umani, politici e spirituali.
Questo modo di procedere per le tradizioni ebraica, islamica e cristiana è reso ancora più eloquente dal fatto che i testi stessi – animati da secoli di storia interpretativa – sono tra loro intrecciati da una serie di riletture e costanti riferimenti.
Un quinto passaggio crediamo sia decisivo: si tratta del momento della scelta ermeneutica. In questa fase, il lettore o la comunità scelgono umanamente – e per chi crede questa scelta avviene davanti al mistero di Dio – nel grande intreccio, che i testi e le loro interpretazioni costituiscono, la modalità di rispondere oggi alle domande proposte dalla storia e dall’esistenza concreta: come si ricostruisce la giustizia? Come trattare il nemico? Che sacralità ha la vita di ogni uomo e donna sulla terra? In che modo guardare e rimediare alle proprie colpe? Come il mistero di Dio ci interpella qui ed ora?
Sono le domande che il credente si pone come singolo e come comunità cercando, in modo diuturno, di trovare le risposte che ritiene provenire da Dio. Quest’operazione non consiste, a ben vedere, in un depauperamento della credenza nel parlare di Dio, nella sua alterità, ma assume in maniera seria il fatto che Dio – se esiste – ha scelto di parlare a uomini e donne in quanto tali.
Il dolore dell’altro
Arriviamo così a un sesto passaggio: la cassa di risonanza – etica e spirituale, esistenziale e politica – del parlare di Dio è la concretezza umana. In questo spazio credo che possa giocare un ruolo importante – e ampiamente testimoniato dai mistici dei tre monoteismi – la capacità di un sentire largo e buono (la pietà/hesed, la misericordia/rahmah, la magnanimità/macrothumia). Ossia la possibilità di percepire il proprio trauma, quello personale e del proprio popolo, insieme con il faticoso riconoscimento della sofferenza e della storia dell’altro, del nemico.
In un’opera storica recente – B. Bashir e A. Goldberg (edd.), Olocausto e Nakba, Zikkaron, Bologna 2023 – tale idea viene descritta come dislocazione empatica. Nell’opera si ripercorre l’obiettivo legame tra due tragedie di popolo, dove la custodia della singolarità ed unicità della Shoah si combina con il riconoscimento della Nakba attraverso uno studio attento della letteratura israeliana e palestinese che mostra l’intreccio di lunga data tra i due eventi.
Senza volerci dilungare in dettagli complessi, risulta possibile rilevare in sintesi come questo atteggiamento, che sa riconoscere insieme il dolore dei propri e il dolore dell’altro, sia radicato in maniera profonda – anche se non sempre mainstream – nei rispettivi testi sacri e rappresenti un atteggiamento umano e religioso che può essere scelto e accolto.
Una prospettiva delineata in maniera magistrale nel capitolo 58,6-9 del profeta Isaia che qui glossiamo (e che invitiamo a rileggere sullo sfondo degli eventi degli ultimi decenni in Medio Oriente):
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio
[ossia l’autentico volere di Dio]:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
[cioè sollevare i poveri e le vittime, liberare gli oppressi]
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
[ossia la capacità di riconoscere i propri e gli altri]
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
[il proprio trauma è guarito insieme al trauma dell’altro]
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione
[l’eliminazione dell’oppressione riaccende un dialogo possibile con il mistero di Dio].
Quanto detto tratta di prospettive «religiose» che – composte con un serio rispetto del diritto internazionale – ritengo vadano seminate, fatte crescere e difese nella speranza che modalità altre – aldilà della distruzione violenta del nemico – possano, in qualche modo, attecchire e contribuire ad innervare le scelte politiche, militari e ideali, diminuendo il tasso di quella violenza che rovina Israele e Palestina. L’urgente disarmo militare e politico mi pare necessiti sempre anche di un disarmo ideologico e teologico.
[1] Cf. D. Neuhaus, Israele, dove vai?, in La Civiltà Cattolica 2 marzo 2024 (4169), 417-429.
- Fabrizio Mandreoli è docente di teologia comparata e fondamentale a Bologna e Firenze e collaboratore con l’Istituto per la storia delle religioni dell’ISSR della Toscana. Insegna anche presso il carcere di Bologna ed è responsabile del centro ricerche «Insight». Pubblicato sul sito dell’editore Laterza il 12 marzo 2024.