Per cercare di spiegare le origini del colpo di stato militare del 1° febbraio. occorre fare una breve premessa. Gli ultimi 5 anni del governo di Aung San Suu Kyi (1 aprile 2016 – 1 febbraio 2021) hanno segnato una serie di risultati positivi sul piano socio-economico per la Birmania, ma hanno contemporaneamente messo in evidenza i limiti di una difficile e mal sopportata convivenza tra il potere militare e quello civile. Una lotta che ha prodotto fondamentali passi in avanti, come lo spostamento del controllo di tutta la pubblica amministrazione: dai direttori generali dei ministeri, fino agli amministratori dell’ultima township, dalle mani dei militari a quelle del gabinetto della leader birmana. O l’attuazione di una serie di fondamentali investimenti, come quelli nelle reti energetiche (il livello di elettrificazione del paese è passato dal 33% al 50% in quattro anni); nella costruzione di strade e ponti, dove prima c’erano solo sentieri che collegavano i villaggi. Il settore scuola ha visto un aumento vertiginoso delle risorse investite: da 251 milioni nel 2102 a 1.2 miliardi di dollari americani nel 2016. Lo stesso per il settore sanitario che è passato da un investimento pari a 20.2 milioni di dollari americani nel 2012 a 840 milioni nel 2017/18.
Ma gli spinosi dialoghi tripartiti per la pace, tra esercito, governo civile, e rappresentanze etniche sono andate avanti a singhiozzo. Le distanze non si sono accorciate soprattutto a fronte di aumento delle violenze negli Stati Kachin e Rakhine (e non più con attacchi dell’esercito nazionale nei confronti delle popolazioni rohingya, ma di quelle buddhiste Rakhine).
Anche l’obiettivo principale della transizione verso la democrazia, rappresentato dalla riforma della Costituzione imposta dai militari, è ancora lì. Irraggiungibile. I militari non hanno mai avuto alcuna intenzione di ridimensionare il loro ruolo politico e, soprattutto economico.
In questa difficile e obbligata convivenza (non compresa spesso dai media internazionali, che hanno dipinto spesso il rapporto tra Aung San Suu Kyi e i militari, come idilliaco, o di connivenza, a scapito delle nazionalità etniche) nel 2017 sono scoppiate, ancora una volta, le violenze nei confronti delle popolazioni rohingya. Violenze che vengono da molto lontano.
Le tappe di un’escalation
Su questo punto, alcune date sono fondamentali per spiegare come la Consigliera di Stato non sia rimasta immobile come si crede di fronte alla crisi rohingya e alla condizione di estrema povertà dello Stato Rakhine. Povertà che ha contribuito a scatenare una lotta tra poveri.
Ecco le date:
1 aprile 2016: si insedia il governo della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).
16 settembre 2016: a soli 5 mesi dall’inizio della legislatura e. con la totale opposizione dei militari, il governo forma la Commissione presieduta da Kofi Annan. Obiettivo: individuare le soluzioni ai ripetuti attacchi e violenze nei confronti dei rohingya, ma anche nei confronti delle altre minoranze etniche dello Stato Rakhine. Nel corso degli ultimi anni, la campagna contro i musulmani, lanciata da un gruppo di monaci nazionalisti, fiancheggiati dai militari e dal loro partito di riferimento, attacca l’NLD accusando il governo della Lady di rischiare di trasformare il Paese da buddista a musulmano. La coalizione di militari, monaci e partito della destra nazionalista monta un clima di diffidenza nei confronti dei rohingya, dipinti come immigrati illegali, senza cultura, poligami, con tantissimi figli che pronti a invadere il paese a scapito dei buddhisti. Così fanno approvare 4 leggi a tutela della razza e della religione.
24 agosto 2017: Aung San Suu Kyi e Kofi Annan presentano le Raccomandazioni conclusive. 60 pagine fondamentali per costruire la pace e il cambiamento socio economico dello Stato. Un importantissimo piano di lavoro che propone la riscrittura della legge sulla cittadinanza, la libertà di movimento dei rohingya, la chiusura dei campi dei rifugiati interni, la promozione del lavoro dignitoso negli investimenti produttivi, la parità di genere e una serie di misure per il superamento delle discriminazioni etniche e religiose. Ovviamente Min Aung Hlaing, capo delle forze armate e del partito dei militari, ha sempre remato contro in tutto il periodo di lavoro della Commissione, perché la normalizzazione avrebbe significato una riduzione del loro ruolo.
25 agosto 2017: il giorno successivo alla presentazione del Rapporto Annan (che combinazione!) il gruppo terroristico Arakan Rohingya Salvation Army attacca 30 postazioni della polizia di confine nel Rakhine, uccide i militari, ma anche 90 hindu di un villaggio. L’esercito e le milizie Rakhine reagiscono con la violenza che tutti abbiamo potuto vedere sui media internazionali. Risultato: 700.000 persone in fuga verso il Bangladesh.
1 ottobre 2017: la Consigliera di Stato costituisce una impresa per la ricostruzione dei villaggi e il reinserimento dei rohingya attraverso una raccolta fondi tra le imprese e, successivamente, nomina una Commissione per l’individuazione delle responsabilità nelle violenze indiscriminate. Ma nessuno ne parla. In quel frangente l’esercito cerca di costringere la Lady a convocare la Commissione Nazionale per la Sicurezza (composta da una maggioranza militare) che, per Costituzione, può sospendere il Governo e il Parlamento, così come è successo con il colpo di stato del febbraio scorso. Aung San Suu Kyi respinge questi tentativi. Ma la sua immagine è ormai offuscata sul piano internazionale. Il Parlamento europeo le toglie il Premio Sakharov e anche altre istituzioni agiscono in modo simile.
La «Lady» in difesa del Myanmar
Una figura indebolita sul piano internazionale ma sempre più è amata nel Paese. Perché in questa situazione Aung San Suu Kyi decide di non mettere a rischio il percorso per la transizione democratica e assume una posizione, sicuramente poco empatica nei confronti dei rohingya, visti come un corpo estraneo nel Paese e come vittime sacrificali dei militari.
La difesa che la Lady fa del suo Paese alla Corte Internazionale di Giustizia contribuisce a rafforzare la stima dei birmani nei suoi confronti e a indebolirla internazionalmente. I risultati elettorali dell’8 novembre 2020 le assegnano una vittoria travolgente. L’NLD ottiene l’83% dei seggi disponibile (il 25 % dei seggi è assegnato ai militari), mentre il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo (USDP), il partito fantoccio dei militari ottiene solo il 7 %. Troppo poco per poter far sì che il comandante in capo delle forze armate Min Aung Hlaing, possa essere eletto Presidente della Repubblica. Una carica per lui fondamentale, che lo proteggerebbe dalle condanne per crimini di guerra e genocidio che potrebbero arrivare dalla Corte Penale Internazionale e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Così il 29 gennaio, inutilmente, in un incontro sicuramente burrascoso, il suo vice cerca di imporre la sua nomina ad Aung San Suu Kyi. Si arriva così al colpo di stato, che non è un fulmine a ciel sereno. La strabordante vittoria dell’NLD avrebbe messo a rischio gli enormi interessi economici dell’esercito. Il capo delle forze armate birmane e un gruppo ristretto di generali controllano i settori più redditizi del Paese (minerario, gas, petrolio, pietre preziose, industria ecc.) attraverso le due grandi holding – la Union of Myanmar Economic Holdings Limited (UMEH) e la Myanmar Economic Corporation (MEC) – che hanno sotto di loro 120 aziende e consociate. Per non parlare poi dell’economia illegale: la Birmania è il primo produttore di metanfetamine al mondo, il secondo di oppio, tutto sotto il controllo di milizie legate ai militari.
Nel 2019 i proventi della produzione di metanfetamine arrivavano a 71 miliardi di dollari americani. La vendita di giada arrivava nel 2014 a 31 miliardi, i rubini a 56 milioni e così via. Il nuovo governo avrebbe approvato nuove norme sulla governance trasparente delle imprese, soprattutto estrattive, sugli obblighi di valutazione di impatto sociale e ambientale dei grandi progetti infrastrutturali previsti con la Cina, e soprattutto una nuova legge per combattere seriamente la produzione di oppio e anfetamine. Quindi un taglio drastico degli strabilianti utili mai arrivati nelle casse dello Stato, ma in quelle dei conti esteri dei militari che il Fondo Monetario internazionale ha stimato siano di 6.7 miliardi di dollari americani.
Un colpo di stato necessario
Un colpo di stato necessario, che sicuramente ha coinvolto la Cina e la Russia. Il 21 gennaio scorso, il ministro degli esteri cinese arriva in Birmania e incontra il comandante in capo delle forze armate. Il 26 gennaio arriva il Ministro della difesa russo con una folta delegazione di militari. Solo 5 giorni prima del colpo di Stato. Volete che i militari birmani abbiano taciuto il loro programma ai due governi più che amici? Negli ultimi 20 anni oltre 10.000 quadri militari birmani sono stati formati nelle accademie russe.
La Cina è il primo esportatore di armamenti in Birmania (50%) mentre la Russia è il secondo (17%). Nessuno pensa che negli incontri di gennaio i militari abbiano taciuto il loro programma di colpo di stato. Ma se hanno avuto l’appoggio di Cina e Russia, sicuramente hanno fatto male i conti con il Paese reale. Un Paese che non conoscono visto che l’esercito è uno Stato nello Stato. Pensavano che l’arresto dei politici, la promessa di indire nuove elezioni dopo un anno, e il tentativo di continuare a governare in un clima di normalità e di libertà potesse essere sufficiente per arginare le critiche. E invece si sono trovati contro l’intero Paese. Tutti i settori produttivi si sono fermati. Nessuno negli uffici pubblici aveva intenzione di riprendere a lavorare sotto il controllo dei militari. Così ogni giorno che passava si chiudevano un ministero, una banca, le fabbriche delle zone industriali, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i porti.
Il Paese ha fatto quello che l’Unione Europea non ha voluto fare. Ha sanzionato l’economia militare birmana. Semplicemente non lavorando più. Costruendo così un cambiamento politico straordinario. Le donne, considerate sempre come subalterne e «deboli» hanno preso il timone di pezzi importanti del neonato Movimento di Disobbedienza Civile (CDM). Coordinano il sindacato negli scioperi delle zone industriali.
I giovani hanno invaso le piazze in modo creativo e hanno hackerato i sistemi dei ministeri rubando informazioni preziose per l’opposizione. I giovani parlamentari eletti a novembre hanno formato il Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw (CRPH), il comitato che rappresenta il parlamento e hanno formato un governo alternativo. Ma il successo più inaspettato del colpo di stato è stata l’alleanza tra l’opposizione democratica e le nazionalità etniche, con i loro eserciti. Il CRPH saluta l’alleanza con gli etnici, sottolinea la necessità di costruire una Unione Federale e democratica con tutti gli etnici e inizia a stilare una costituzione democratica e federale, in sostituzione di quella imposta dai militari.
Ma l’aumento esponenziale delle uccisioni indiscriminate che quotidianamente hanno insanguinato le strade del Paese, l’uso di armi da guerra, i bombardamenti aerei sui villaggi Karen, nel giorno della vergognosa celebrazione delle forze armate, alla presenza del vice ministro della difesa russo e di altri diplomatici amici (Cina, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam, Pakistan, India e Bangladesh) hanno prodotto un altro risultato inimmaginabile due mesi fa: l’idea di costituire un esercito federale e democratico. Il futuro prossimo sarà sicuramente drammatico. La repressione dei militari golpisti aumenterà ancora. Sono allo stremo e devono colpire e soffocare definitivamente la rivolta pacifica.
Certo l’alleanza tra tutte le armate etniche e un loro intervento coordinato alzerà indubbiamente il livello dello scontro. Il confronto, se avverrà, sarà tra un esercito di 500.000 militari ben equipaggiati, una forza di polizia di oltre 100.000 unità con armamenti modernissimi, contro le armate etniche che tutte insieme potranno sì e no raggiungere i 100.000 soldati, e di certo non saranno tirati a lucido come i militari della parata del 27 marzo.
Cecilia Brighi è segretaria generale Italia-Birmania.Insieme. L’articolo è stato pubblicato sul sito della rivista Confronti il 12 aprile 2021.