La paralisi dell’Iraq

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muqtada al sadr

Quando l’ISIS distrusse l’area di confine settentrionale tra la Siria e l’Iraq, mirando a mettere sotto il proprio controllo il vasto spazio siro-iracheno che va da Mosul ad Aleppo, in molti, sbagliando, scrissero che gli uomini di al-Baghdadi avevano sfidato i confini coloniali imposti dagli imperi europei quando si disfece l’impero ottomano: l’ISIS invece riportò in vita proprio quei confini, come dimostra la cartina sotto.

cartina

Mancava Damasco, ma il disegno era molto simile a quello di Sykes e Picot, i due funzionari, rispettivamente, britannico e francese che tracciarono i confini del nuovo Medio Oriente. Se fu la questione del petrolio a modificare la linea che tagliava a metà – del tutto innaturalmente – quei territori per estendere a Nord l’Iraq britannico, è stato proprio l’Iraq il primo Paese a dar vita a un’insurrezione indipendentista araba.

Chi insorse? Sunniti e sciiti, insieme. Nessuno se ne ricorda, ma qualcosa di simile sta accadendo nelle piazze irachene da anni, dove gli errori americani e iraniani hanno riacceso il desiderio di indipendenza e sovranità.

Saddam e Khomeini

Tra quella rivolta indipendentista e lontana nel tempo e l’oggi ci sono di mezzo soprattutto i devastanti decenni del «laico» Saddam, che creò uno Stato in cui gli sciiti e i curdi – le altre grandi componenti della società irachena, insieme ai cristiani – venivano perseguitati.

Saddam governava con gli uomini a lui fedeli, quelli della sua tribù. E considerava i cristiani una «specie animale» di particolare valore: tramite qualche prebenda a loro beneficio contava di ottenere favori dall’Occidente. Il suo cedimento strutturale – che non lo salvò – fu quello in favore dei curdi, ai quali dovette riconoscere l’autonomia dopo averli combattuti con estrema ferocia, come dimostra il massacro, con mezzi chimici, avvenuto ad Hallabja nel 1988.

Altrettanto feroce fu la mano del rais contro gli sciiti, che a lungo erano stati casamadre di quel temutissimo comunismo arabo in grado di sfidarlo dall’interno della società irachena. Discriminati dai tempi degli ottomani in quanto sciiti, con Saddam gli stessi sciiti sono stati discriminati perché tribalmente e politicamente non fedeli.

La questione sciita – profondamente equivocata dagli americani – divenne determinante nel dopo Saddam. Il grande successo dell’invasione ispirata dalla destra neocon (i nuovi conservatori), per paradosso, fu quello di aprire le porte all’influenza dell’Iran sciita sull’Iraq. Baghdad, imponente e indimenticata sede califfale dell’epoca d’oro dell’Islam, andava così ad assumere nell’imperialismo persiano khomeinista un enorme valore, non solo culturale, ma anche geopolitico.

Il progetto khomeinista, oltre a prevedere di esportare la guerra per tenerla lontana dai propri confini, puntava e punta tuttora a unire le terre islamiche, in cartina, sotto l’egemonia del nuovo Islam, quello dell’Imam Khomeini e dei suoi successori: un progetto che dimentica il confine reale fissato dai tempi di Alessandro Magno.

Un disastro, da Bush a Obama

Quel confine è la Mesopotamia, che separa l’altopiano iranico dalla piana che va fino al Mediterraneo. È il cammino di Abramo, che parte proprio dalla Mesopotamia e arriva al Mediterraneo, rendendo Ebraismo, Cristianesimo e Islam Religioni dello stesso Mare, mondo marittimo, mondo di scambi e cosmopolita.

Al di là di questa area, cioè al di là del confine che vediamo tracciato all’estremo bordo orientale della nostra cartina, c’è la catena dei monti Zagros. Essi hanno una lunghezza totale di 1.500 km, dalla regione del Kurdistan ai confini dell’Iraq, fino al Golfo Persico. Da una parte sta l’altipiano, dall’altra la vecchia Mesopotamia. La catena finisce sullo Stretto di Hormuz. Il punto più alto dei Monti Zagros è il monte Dena, 4.409 metri.

L’Iraq è dunque una terra di confine, parte integrante del bacino del Mediterraneo, naturalmente collegata anche dal punto di vista di continuità delle popolazioni con quelle che seguono sino alla costa. L’invasione americana ha sbriciolato una cristalleria decisiva per l’assetto eurasiatico e il Mediterraneo.

Come immaginare che oggi questo enorme Paese – tra i principali produttori mondiali di petrolio – debba importare 16 milioni di barili al giorno per sopravvivere? Il disastro causato da Bush è stato completato da Obama che ha preferito dedicare le sue attenzioni all’Iran, abbandonando i cocci iracheni: così non poteva che determinarsi un’egemonia sciita a trazione iraniana.

Confondere i due termini – sciti e iraniani – è stato esiziale nella gestione Obama. Gli iraniani, infatti, esercitano la loro influenza in Iraq con le milizie armate, giocando sulla miseria sciita, oramai maggioranza assoluta, radicalizzata contro le altre comunità. Ma l’estremismo delle milizie degli uni è la giustificazione esistenziale per quelle degli altri: una faglia che dilania l’Islam tra due opposti imperialismi politico-economici, piuttosto che religiosi.

Muqtada al Sadr

E ora, enigmatico, emerge Muqtada al-Sadr, il leader che sta spezzando la maggioranza assoluta sciita nel Parlamento iracheno.

L’Iraq oggi è un Paese dalla complessa architettura politico-confessionale, orientata a riprodurre il modello libanese: un dedalo. Il Presidente della Repubblica è un curdo, espressione di quella parte curda più vicina all’Iran, usualmente ricondotta alla famiglia Talabani. L’altra parte è quella più vicina alla Turchia, usualmente ricondotta alla famiglia Balzani, che guida il governo del Kurdistan iracheno. Il presidente del Parlamento è un sunnita, la vecchia parte vincente e oggi soccombente dopo la nefasta era di Saddam. Il capo del governo è espresso dalla maggioranza sciita. Ma il blocco filoiraniano ha perso le elezioni in maniera fragorosa, a evidente vantaggio di Muqtada al Sadr.

Figlio di uno stimatissimo leader religioso sciita fatto uccidere da Saddam, Sadr è emerso come il capo dell’esercito del Mahdi, che ha combattuto una guerra senza quartiere contro gli invasori americani. La sua popolarità è sempre apparsa indiscutibile ed è aumentata quando ha cominciato a mettere in chiaro che – così come non aveva accettato il colonialismo americano – non avrebbe certamente accettato il colonialismo iraniano.

muqtada al sadr

Ai giovani della rivolta irachena in corso da anni sotto il fuoco delle milizie filoiraniane – giovani soprattutto sciiti, ma anche sunniti e stessi cristiani stanchi delle vessazioni e delle rapine che i miliziani vicini ai pasdaran iraniani impongono in tutto il Paese – la voce del rampollo ribelle è divenuta familiare a molti: evoca loro quella lontana insurrezione di popolo che mise insieme gli iracheni al di là dei loro confini etnici o confessionali?

Di certo, con il suo spirito nazionale, ha vinto le ultime elezioni, nonostante il grande astensionismo, conquistando 73 seggi parlamentari e divenendo il capo del primo partito. Tutte le milizie filoiraniane, compreso il partito dell’ex primo ministro al-Maliki, hanno nel loro insieme molti meno seggi di lui.

Baghdad è in bilico

Il voto si è tenuto a ottobre e le milizie filo iraniane hanno attentato alla vita del primo ministro in carica per far capire che gli non piaceva il risultato. A fine anno è arrivata, tuttavia, la ratifica del risultato elettorale. Il complesso iter per arrivare al varo del nuovo governo dell’Iraq prevede come prima tappa la nomina del nuovo presidente della Repubblica, poi del Presidente del Parlamento, infine del governo, che Muqtada al Sadr voleva senza più i filoiraniani, ma con i suoi, insieme a curdi e sunniti. Ma il curdo prescelto dal partito di Talabani ha mancato di pochissimo i voti richiesti, cioè i due terzi del totale degli eletti, e così i filoiraniani hanno di fatto paralizzato il nuovo Iraq.

Sadr, pochi giorni fa, ha fatto dimettere in blocco i suoi e ha fatto occupare il Parlamento. In un discorso appassionato e veemente si è riferito ad una registrazione nella quale è coinvolto l’ex premier Maliki e nella quale si parla della sua eliminazione. «Se non è possibile cambiare il Paese dall’alto – avrebbe detto Sadr ai suoi prima dell’occupazione – cambieremo il Paese dal basso».

Cosa potrà accadere? Teheran ha spedito a Baghdad il potentissimo capo dei pasdaran per mediare tra gli sciiti. Ma cosa? Come dimostra la cartina da cui siamo partiti, i progetti coloniali possono essere modificati, ma non cambiare logica. Qualche speranza in più è lecita per la mediazione avviata dal premier Khadimi. Tutto ciò che di politico esiste in questo momento in Iraq è lui, il primo ministro in carica per il disbrigo degli affari correnti, che cerca di tenere in piedi non solo il Paese – o quel poco che esiste di esso – ma anche i fili del dialogo nella regione.

Grazie a lui sauditi e iraniani si sono incontrati in numerosi round negoziali a Baghdad. I grandi nemici, i capifila degli opposti imperialismi mediorientali, si parlano nella contesa Baghdad. Ma Baghdad è in bilico e già in queste ore, quando i seguaci di Muqtada al Sadr si riuniranno per la preghiera del venerdì nella grande moschea a ridosso del Parlamento, come chiesto dal loro leader, si potrebbe capire se i pessimisti che già parlano di deriva armata alle porte hanno ragione. La richiesta ufficiale di Sadr, formulata nelle ore trascorse, è chiara: scioglimento del Parlamento e indizioni di nuove elezioni.

 

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