I paesi balcanici – nell’Unione Europea e alle soglie dell’Unione Europea – stanno attraversando il periodo peggiore della crisi da Covid-19 proprio in questi giorni. Prova ne sia che, tra i venti paesi da cui è fatto divieto di ingresso in Italia, ben sette appartengono alla regione: Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo, con Romania e Bulgaria.
Negli ultimi due mesi il contagio ha conosciuto una propagazione crescente e senza alcuna inversione di tendenza. Le misure prese dai governi si stanno rivelando troppo deboli e inadeguate.
La diffusione del virus
In Bosnia Erzegovina i dati ufficiali parlano di trecento-trecentocinquanta nuovi casi di positività ogni giorno in una popolazione pari ad un ventesimo di quella italiana e quindi con una equivalenza ai nostri settemila casi al giorno del peggior periodo trascorso tra marzo ed aprile. In Serbia la situazione è persino peggiore, con 500 casi al giorno in una popolazione pari ad un decimo di quella italiana. Bosnia e Serbia costituiscono il nuovo “caso Lombardia” nel centro geografico, ma non politico, dell’Europa.
I racconti raccolti sono del tutto analoghi: in Serbia gli ospedali sono strapieni di pazienti, vengono per ciò improvvisate nuove sedi pseudo-ospedaliere in palestre e palazzetti, scarseggiano i dispostivi sanitari di sicurezza e di cura, di conseguenza molto personale sanitario è ammalato, i cittadini non possono accedere ai test e così via. Il sistema sanitario è dunque al collasso. I morti – per quanto possano dire di vero i dati ufficiali – sono sicuramente in crescita.
Dopo il primo lockdown, adottato tra marzo e aprile, come in tutti i paesi, ci si aspettava qui un nuovo picco di contagi per l’autunno, mentre in realtà tutto sta accadendo nel bel mezzo della calda estate, con un crescendo che non ha conosciuto interruzioni. Le ragioni sono presto dette.
Tutto come prima
Quando in Italia la situazione era andata ormai fuori controllo, i governi dei paesi balcanici avevano tempestivamente preso tutte le misure del caso, chiudendo tutto quello che si poteva chiudere. Ma a maggio, quando è stato tutto riaperto, la popolazione, che non ha avuto modo di conoscere direttamente la serietà e la pericolosità del contagio, ha ripreso inconsapevolmente a comportarsi esattamente come prima, senza alcuna precauzione e senza alcun controllo.
Bar, pub e discoteche hanno ripreso a riempirsi di giovani (che sono oggi tra i più contagiati e i presumibilmente sono i maggiori vettori del contagio). Funerali, matrimoni e altre cerimonie sono riprese in maniera ovviamente “balcanica”, ossia con grande partecipazione di centinaia di persone. Le manifestazioni sportive sono ritornate alle masse. Dopo questo, il contagio ha ripreso esponenzialmente ad espandersi. Il rapporto causa effetto è risultato chiaro.
Il caso serbo
Ma c’è un’altra spiegazione da mettere in evidenza ed è di carattere politico, soprattutto nel paese nelle peggiori condizioni in questo momento, ossia la Serbia. Il governo serbo, per ragioni politiche, ha mantenuto nel nascondimento la vera entità del problema nei mesi di maggio e giugno, in vista delle elezioni nazionali del 15 giugno.
Ciò ha avuto un effetto del tutto controproducente. Il governo serbo in carica ha voluto dare alla popolazione la sensazione della rapidamente recuperata normalità. É abbastanza certo che abbia nascosto e persino falsato i dati, rendendo noti numeri molto bassi, in vista del voto. L’operazione ha avuto successo dal punto di vista elettorale – col trionfo del capo di governo Aleksandar Vučič e del suo partito con oltre il 60% di consensi – ma certamente non dal punto di vista sanitario.
Solo a fine giugno la realtà si è riaffacciata in tutta la sua drammaticità. A quel punto sono scattate le proteste dei cittadini serbi contro il governo, peraltro con le stesse modalità di massa che certo non hanno contribuito ad alleviare i problemi sanitari. Pure operatori Caritas sono stati contagiati e alcuni di loro hanno dovuto ricorrere al ricovero ospedaliero.
La notizia odierna di un ministro bosniaco di 53 anni – un uomo in precedenza in salute – morto a causa del virus, sta altresì facendo scalpore e disseminando paura in Bosnia e nei paesi limitrofi.
Caritas italiana nei Balcani
La situazione è davvero molto preoccupante e molto dovrebbe preoccupare in Italia, anche se ben poco se ne dice. Ci sono persone che vanno e vengono dal nostro paese nella regione balcanica e viceversa: sono balcanici che lavorano e vivono in Italia, ma anche imprenditori italiani che lavorano e commerciano in questi paesi.
Caritas Italiana sta cercando di intervenire nella nuova emergenza balcanica sulle due maggiori difficoltà: grazie al fondo messo a disposizione dalla Conferenza episcopale, si stanno donando agli ospedali in Serbia e in Albania i dispositivi di sicurezza che mancano al personale, oltre a respiratori e a strumentazione urgentemente necessitante; mentre, attraverso le Caritas nazionali di questi paesi (Serbia, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Bosnia Erzegovina), si stanno sostenendo progetti di rapida attuazione della sensibilizzazione della popolazione affinché si recuperi una giusta attenzione ai comportamenti personali, famigliari e sociali.
Naturalmente continua l’azione di aiuto per i più poveri che, come sempre, risultano particolarmente colpiti, più che dalla infezione, dalle conseguenze economiche della stessa.
La preoccupazione sulle sorti di questi paesi, già in gravi difficoltà, è molto grande. Le loro fragili economie stanno crollando. Un paese come il Montenegro che vive in buona misura in questo periodo di solo turismo conosce il tracollo dell’intero settore. I tradizionali donatori internazionali si stanno ritirando.
L’Europa, a fronte alla intesa raggiunta al proprio interno, sta decisamente decurtando i fondi a disposizione degli stati in preadesione all’Unione. Processi già molto lenti e stentati si vanno ad arrestare. I principali paesi sostenitori interessati allo sviluppo della economia nei Balcani – ossia Germania ed Italia insieme a Stati Uniti e Francia – arriveranno presumibilmente a ritirarsi.
Campi profughi
Non possiamo dimenticare inoltre i campi profughi disseminati nei paesi della rotta balcanica dalla Grecia alla Bosnia Erzegovina. Ripetutamente abbiamo testimoniato anche per SettimanaNews. Come nel periodo più ferreo del lockdown sussistono due ordini di preoccupazione: la prima è che il virus possa entrare e radicarsi nei campi – in cui si vive permanentemente in sovraffollamento e in condizioni igieniche assai precarie – con conseguenze devastanti; la seconda è che da tali potenziali focolai l’epidemia possa ulteriormente propagarsi nelle popolazioni di questi paesi. Sinora non è accaduto.
Ma non si può escludere che possa accadere. I profughi sono indotti dalle necessità a spostarsi da un paese all’altro, da un campo all’altro per avvinarsi alle loro mete in Europa, mentre le autorità sanitarie li vorrebbero fermare e i governi, se possibile, sparire dalla vista. I campi sono stati sempre più blindati. In Serbia, in maggio, è stato mandato l’esercito a presidiare. Le condizioni si sono fatte sempre più dure e a lungo insostenibili.
L’allentamento generalizzato ha prodotto quel che abbiamo descritto. Nelle prossime settimane temiamo che vengano reintrodotte misure estreme, sia con motivazioni fondate, sia capziose. Quando questo avviene non si va certo per il sottile.
L’insieme dei fattori – dalla diffusione del contagio al crollo delle attività e delle donazioni – sta oscuramente spandendo una miscela dagli effetti tossici su queste fragili popolazioni per i prossimi lunghi anni, sui poveri di qui e sui migranti della rotta provenienti da ogni dove, con pericolose contaminazioni disumanizzanti, non solo a motivo del virus biologico, per l’Europa tutta e per l’Italia in particolare.
Progetti di Caritas italiana nella regione dei Balcani, qui.