Daniele Bombardi – coordinatore dei progetti di Caritas Italiana nei Balcani – ci aggiorna puntualmente sui fatti della “rotta balcanica” dei migranti. Assieme a lui ringraziamo la direzione di Caritas Italiana per la disponibilità di informazione.
- Caro Daniele, puoi aggiornare i lettori di SettimaNanews circa la situazione dei migranti in cammino sulla “rotta balcanica”, specie in Bosnia Herzegovina, dopo i fatti dell’inverno?
Stiamo osservando ciò che abbiamo osservato dal 2018 ad oggi in questa stagione: un flusso intenso di persone che arriva in Bosnia per poi ripartire verso il confine con la Croazia, quindi verso l’Europa. La rotta balcanica inizia in Turchia e staziona in Grecia.
Da là si divide in due possibili percorsi: dalla Grecia alla Bosnia attraverso Macedonia e Serbia, oppure dalla Grecia alla Bosnia attraverso Albania e Montenegro. La confluenza avviene in Bosnia, prima nella capitale Sarajevo e poi soprattutto attorno alla città di confine di Bihac.
Le nazionalità dei migranti che percorrono la rotta balcanica – come ho avuto altre volte modo di dire – sono le più disparate: c’è chi giunge dal Medio-Oriente, ossia da Siria, Iraq, Iran; c’è chi arriva dall’Asia, ossia dall’Afghanistan, dal Pakistan, dal Bangladesh, dall’India…; ma c’è persino chi giunge dall’Africa sub-sahariana e dal nord-Africa, da cui – come ben sappiamo – si dipartono anche altre rotte molto battute.
Le storie si ripetono anche per quanto riguarda la durezza dei respingimenti da parte della polizia croata (e delle polizie europee in genere), non rispettosi delle leggi vigenti in Europa. Dopo i casi di violenza rivelati da stampa e televisioni nell’inverno scorso, forse ora c’è un po’ di attenzione sui metodi impiegati.
Ma la realtà non è mutata: l’Europa “ufficialmente” non vuole questi migranti. Perciò il passaggio dei confini resta un “game”, un drammatico – a volte tragico – gioco con la sorte che, sia pure dopo molti tentativi e ad un prezzo altissimo di sofferenza oltre che di denaro, tuttavia riesce.
In questi giorni di bel tempo, dunque, vediamo un continuo via vai di persone dentro e fuori dai campi attorno a Bihac. I gruppi di migranti – che comprendono anche intere famiglie – arrivano, si riposano per qualche tempo e quindi tentano il passaggio.
Chiaramente più risorse i migranti hanno a disposizione e più probabilità hanno di riuscire al primo tentativo o ai primi tentativi. Altrimenti debbono provare e riprovare diverse volte, correndo più rischi sui sentieri di montagna, incorrendo nelle disavventure di cui abbiamo avuto testimonianza anche nei mesi scorsi.
La rete Caritas – collegata alle ONG operanti sul posto – continua a fornire assistenza dentro e fuori dai campi. Questa si è rivelata preziosa – anche “solo” per la distribuzione dei generi di prima necessità – durante i lunghi mesi dell’inverno e della durata dell’emergenza umanitaria ingeneratasi nel campo di Lipa, una zona montuosa a 30 Km da Bihac. Quella situazione si è ora allentata. Ma proprio per questo preoccupa, a maggior ragione, la situazione di fondo. Noi pensiamo già al prossimo autunno e al prossimo inverno.
Ebbene, la politica del governo bosniaco – assecondata da I.O.M. – conferma la linea di chiusura dei campi che erano stati allestiti in questi anni nell’area urbana della città di Bihac, per evitare, come già ripetutamente avvenuto, le proteste della popolazione locale. Ciò comporta l’allargamento del campo di Lipa, cioè un campo distante dai centri abitati e molto isolato, ma dove ancora non c’è acqua corrente, non ci sono scarichi fognari, non c’è collegamento alla rete elettrica.
Allargare il campo di Lipa vorrà dire aumentarne la potenzialità da circa 1.000 a circa 2.000/2.500 posti col posizionamento di container in aggiunta alle grandi tende militari che poco prima del Natale scorso sono andate, in parte, a fuoco. Non solo: questa linea di tendenza porterà al campo di Lipa anche una parte delle famiglie – con donne e bambini – che almeno sino ad ora hanno trovato accoglienza nelle strutture più organizzate della città, con tutto quanto potrà dunque conseguire da una scelta di questo tipo.
Lipa è di per sé un posto inadatto ad ospitare migliaia di migranti: pensate che la strada per arrivarci è stata asfaltata solo per brevi tratti ed appunto non esistono nel campo collegamenti alle reti di fornitura di acqua ed energia elettrica. Viene da sé pensare al peggio quando questo progetto – o meglio quando questo “non progetto” – verrà a compiersi.
Lipa potrebbe divenire in breve una sorta di altra “isola di Lesbo” trapiantata nei Balcani: un incrocio di genti abbandonate a sé, un altro simbolo del voltafaccia dell’Europa e del mondo.
Non ho ovviamente certezze. Spero di sbagliare nelle mie previsioni. Ma quel che non si vede è più di quanto si possa vedere: i lavori procedono a rilento e, nella loro parzialità, non saranno in grado di far fronte a ciò che si sta preparando. Facilmente ci si ritroverà in una nuova emergenza umanitaria il prossimo inverno. Siamo molto preoccupati.
- SettimanaNews ha avuto modo di occuparsi del caso davvero impressionante di Amir, profugo iraniano: puoi dire come sta e se si potrà dare una soluzione migliore?
Amir si trova in uno dei campi minori in muratura nella città di Bihac. Il suo caso è noto alle autorità: c’è stato un interessamento della ambasciata italiana, così come di diverse organizzazioni cattoliche italiane. Non esistono tuttavia, sotto il profilo giuridico, canali ordinati – sia per ragioni sanitarie che per ragioni umanitarie – che possano portare ad una soluzione del caso in Italia o altrove.
Le cure sanitarie in Italia possono essere prestate solo a persone provenienti da Paesi che mostrino di non essere in grado di offrire loro un’adeguata assistenza. Non è questa – nonostante tutta la serietà della condizione di Amir – la fattispecie. La Bosnia è – di per sé – in grado di prestare la dovuta assistenza sanitaria ad una persona paralizzata alle gambe e che deambula in sedia a rotelle. Corridoi umanitari definiti tra Bosnia, Italia ed Europa, al momento, non esistono.
Ciò che voglio qui mettere in evidenza è che il caso di Amir non è, purtroppo e certamente, il solo di questo tipo: Amir in qualche modo rappresenta tutta una serie di storie tristissime e mai completamente venute alla luce; storie di persone che hanno subito violenze, magari ripetutamente, prima in patria e poi lungo il percorso della rotta, che – ricordiamo – dura interi anni, storie pure di persone anziane, malate, disabili appunto; storie di donne e di bambini che non hanno mai conosciuto una vita “normale”; storie, comunque, di giovani uomini dai piedi e dagli animi piagati. Non voler accogliere Amir in Europa è purtroppo parte integrante di una politica che non vuole accogliere alcun profugo, neppure i più fragili.
- Come sta andando la campagna di raccolta fondi e quali sono i progetti di Caritas Italiana nella rotta?
Caritas Italiana ha ricevuto nei mesi scorsi un importante contributo di offerte dalle comunità italiane. Le notizie di cronaca – drammatiche – hanno amplificato l’attenzione e la generosità degli italiani. Il nostro impegno sta ora soprattutto nella progettazione di interventi di carattere strutturale, benché non possiamo dismettere in alcun modo la preparazione sul fronte delle emergenze immediate, improvvise. Non possiamo peraltro adeguarci al sentire di comodo degli Stati che intendono vedere il fenomeno migratorio sempre e solo come eccezionale, temporaneo.
Grazie al sostegno ricevuto, stiamo cercando di attrezzarci per i tempi lunghi della rotta balcanica, in tutte le sedi dei Paesi toccati e sino a qui, in Bosnia, in particolare. L’intento è di rendere la vita nei campi – quali che saranno – più umana, più dignitosa e a misura delle persone più fragili. Stiamo concordando gli interventi con le autorità, cercando così di far passare, appunto, i concetti di assistenza di lunga durata e di dignità – nella concretezza dei fatti – delle persone ospitate.
- Qual è la tua considerazione conclusiva?
Mi interrogo sul senso di questo complesso e disordinato sistema che, mentre non riesce ad arrestare l’immenso flusso migratorio, lo rallenta oltremodo caricandolo di malaffare, sofferenze, disumanità. Queste persone fuggono da guerre conclamate, persecuzioni, disastri naturali, crisi economiche, fame, ecc.
Nessuno in fondo – lo vediamo – è in grado di fermarle e di impedire loro di raggiungere le mete stabilite. Ci chiediamo, cercando di coinvolgere i lettori in questa nostra considerazione: che senso ha?