Daniele Bombardi è referente dei progetti di Caritas Italiana nel Balcani. Vive a Sarajevo. Per maggiori informazioni e sostegno alle attività di soccorso ai profughi della rotta balcanica: qui.
- Caro Daniele, quali sono le ‘ultime’ dalla rotta balcanica?
Dalla Bosnia Herzegovina, specie dall’estremo lembo rivolto all’Europa, osserviamo, ormai da alcuni anni – almeno dal 2018 – l’alternanza dei movimenti, secondo le stagioni: ancora ci troviamo – ad oggi – nella fase “estiva”, caratterizzata da intensi transiti e ripetuti tentativi di attraversare l’ultimo confine da parte dei migranti. Perciò, in questo periodo, i campi profughi non sono colmi. Si riempiranno tra poco coi primi freddi intensi, il maltempo e la neve.
Tuttora, molti migranti preferiscono stare fuori dai campi e aggirare da lontano il campo ‘istituzionale’ per tentare più facilmente il game, ossia il ripetuto e, spesso, violento gioco con le guardie di confine. Nel mentre si profila la fase “invernale” che sarà caratterizzata dal rallentamento dei passaggi e dall’affollamento dei campi di ricezione, alla ricerca di un minimo di riparo e di assistenza da parte dei migranti.
La situazione dai Paesi di provenienza e di transito, lungo tutta la rotta balcanica, non è affatto migliorata. Anzi. La crisi siriana e la crisi afgana, insieme a tutte le altre di cui questa rotta è la collezione, sono tutte ben attive. Perciò prevediamo flussi complessivi di profughi paragonabili – se non superiori – agli anni appena trascorsi. Le emergenze sono di nuovo dietro l’angolo.
Tensioni circostanti
- Noti qualche conseguenza della crisi tra Bielorussia e Polonia?
Non posso dire di aver registrato conseguenze – quantomeno immediate – della crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia, nel verso della Bosnia Herzegovina. Forse i migranti stanno tentando di aprire di là una nuova rotta. Ma, come sappiamo, si fa di tutto per impedire, persino con controlli militari, barriere e veri e propri muri di acciaio e cemento.
Pertanto – più che di effetti sensibili – posso parlare di un clima comunque sensibile che anche qui ben si respira: è il clima ingenerato dalla costruzione dei muri, ovunque. Si stanno moltiplicando i muri coi quali – fuori e dentro Europa – una parte della umanità si sta arroccando dentro le proprie fortezze per impedire in tutti i modi il passaggio e l’ingresso di un’altra parte dell’umanità che viene dalle peggiori condizioni di vita.
Non a caso è venuta fuori in questi tempi la lettera di 12 Paesi europei che chiedono alla Unione di finanziare la costruzione di massicci mezzi fisici di impedimento. Il problema è certamente complesso. Andrebbe affrontato dalla politica in maniera ben altrimenti diversa e articolata. Mentre prevale la politica della forza e dunque dei “muri” che è ovviamente la peggiore che si possa dare.
- La vicenda afghana dell’estate sta avendo già effetti anche sulla rotta balcanica?
Qui voglio dire chiaramente che la popolazione afghana è – da anni – la più presente sulla rotta balcanica! La ragione è – a noi osservatori – ben nota: l’Afghanistan non è mai stato un Paese sicuro, anche se in Europa, sino ad ora, per convenienza politica, si è continuato a dire che lo fosse.
Ciò ha fatto comodo per poter rigettare tante domande di asilo o di protezione internazionale, affermando che, coi documenti alla mano, gli afghani avrebbero potuto rientrare nel loro Paese.
In estate, con l’ingresso dei talebani a Kabul, abbiamo avuto semplicemente la conferma di quanto poco sicura fosse la condizione della popolazione – specie al di fuori delle maggiori città – e di quanto intensa, quindi, fosse e sia la spinta ad andarsene dall’Afghanistan.
Attualmente non osserviamo un incremento del numero di profughi afghani lungo la rotta balcanica, almeno più di quanto già ne fosse assai significativo il flusso. Può darsi che ciò avvenga nel prossimo futuro: sappiamo che servono diversi mesi dalla partenza dal Paese, prima di vedere le persone qui, nei Balcani.
L’elemento la cui importanza non va ora affatto sottovalutata è la nuova considerazione che i Paesi europei dovranno avere per chi reca la nazionalità afghana: a chi riuscirà ad arrivare in Europa e a presentare la domanda di asilo, questa non più potrà essere negata.
La fretta di costruire altri muri potrebbe, almeno in parte, spiegarsi proprio, in questo modo: i Paesi europei che tanta solidarietà hanno manifestato in questi mesi per le donne e il popolo afghano, non hanno, di fatto, alcuna volontà di accogliere e di riconoscere lo status di rifugiati a numeri significativi di uomini, con intere famiglie, di nazionalità afghana.
I campi
- I campi profughi della Bosnia Herzegovina sono perlomeno meglio attrezzati ad affrontare l’inverno?
Complessivamente il numero di posti nei campi è diminuito. Ed in tale situazione ci si appresta ad affrontare l’inverno. Due campi profughi nella città di confine di Bihac sono stati chiusi perché le strutture in cui erano collocati i migranti sono di proprietà privata, con tutti i costi che ne conseguivano.
Perciò in Bihac e nei pressi oggi parliamo di due campi: il primo ricavato, dal 2018, in un edificio allora fatiscente di proprietà dello stato, poi sistemato allo scopo, il secondo quello di Lipa a 20 chilometri dalla città, quello che ha fatto parlare di sé l’inverno scorso per le condizioni di degrado – senza acqua ed energia elettrica – e pure per lo scoppio dell’incendio delle tende sotto Natale.
Il “nuovo” campo di Lipa doveva essere ora inaugurato, all’inizio di settembre. A rilento stanno procedendo i lavori. Ma anche quando saranno terminati il campo non sarà in grado di compensare la perdita dei posti dei campi già chiusi. Resta poi la collocazione davvero infelice di Lipa, sui primi contrafforti montuosi, in una zona impervia, isolata dal mondo.
Per questo ho accennato a nuove emergenze dietro l’angolo, quali potrebbero rappresentarsi in scene già viste, con persone all’addiaccio e abbandonate a sé stesse. Stiamo pensando, in questo momento, soprattutto a tale – affatto remota – eventualità.
Il lavoro della Caritas
- L’impegno della Caritas come si svilupperà?
Per quanto ho detto, il nostro impegno prevedibilmente si svilupperà secondo quattro direttrici. Il primo impegno appunto sarà quello di cercare di non abbandonare nessuno in condizioni estreme: mi riferisco a quei vuoti di umanità, senza calore, senza nulla, a cui ho accennato.
Stiamo poi da tempo lavorando, d’intesa con le autorità e gli altri organismi, per organizzare una presenza di servizi strutturati dentro il “nuovo” campo di Lipa: è necessario garantire una distribuzione continuativa di generi di cui c’è sempre carenza, oltre ad offrire un minimo di ascolto e di assistenza psicologica alle persone.
Stiamo inoltre valutando come intervenire a favore delle povertà della comunità locale. È indubbio che tanti sentimenti non buoni nei confronti dei migranti nascono dalle difficoltà in cui vive una popolazione già molto provata da una storia di guerra, ancor recente, da cui non è ancora evidentemente uscita. Perciò, ad esempio, tutti i nostri acquisti per i migranti sono fatti in loco, presso le piccole cooperative che impiegano persone in gravi difficoltà sociali.
Con soddisfazione voglio mettere in evidenza come parte di questi propositi e progetti passino attraverso la Caritas della Diocesi di Banja Luka, nel cui territorio si trova Bihac, per cui si può effettivamente parlare di azioni realizzate dalla ‘rete Caritas’, ossia da Chiese e comunità che dall’Italia, attraverso Caritas Italiana, insieme sostengono una Chiesa nella prova.
Come dicevo, ci stiamo preparando di nuovo al peggio. Voglia il Signore – con la generosità e con la carità di molte comunità cristiane e di molti – che così non sia.