È difficile sottrarsi al drammatico timore che l’azione di Hezbollah contro i drusi del Golan, che ha causato la morte di molti bambini che giocavano a pallone, sia stata compiuta in nome e per conto del regime di Bashar al Assad – che da mesi è impegnato nel tentativo di reprimere la protesta dei drusi nel sud della Siria, in particolare nella città di Sweida, alla quale è stata anche tagliata la poco elettricità che fino all’estate scorsa consentiva ai drusi di quella città di vivere, o di sopravvivere.
La denuncia non giunge da nessuna autorità drusa, ovviamente, è un tema troppo delicato. Ma che dovrebbe aprire gli occhi anche di chi in queste ore si accinge a ristabilire relazioni diplomatiche con la Siria di Assad.
Certo, Hezbollah ha smentito, ha detto che quel missile è caduto su quello stadio per errore. Ma poi, nella costernazione di tutto il Libano, avrebbe ammesso il proprio errore, gettando nel panico un’intera nazione. Potrebbe essere l’errore di calcolo da tutti temuto da tempo. Ma l’aria della vendetta di regime c’è , traspira dalla metodologia dell’azione.
Le cerimonie druse di cordoglio per l’accaduto nella cittadina del Golan, Majdal Shams, sono impressionanti. Una testata iraniana dal peso di 50 chilogrammi potrebbe aver fatto deflagrare i precari equilibri siriani e non solo, purtroppo.
Questa tragedia infatti avviene in ore molto delicate per il leader siriano, Bashar al Assad. Convocato di tutta fretta a Mosca dal suo padrino russo, Assad si è sentito dire che è ora di aprire una pagina nuova con le opposizioni. La spinta di Mosca per un disgelo con la Turchia è fortissima, e i prezzi sarebbero enormi per tutti.
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Ankara potrebbe accettare di ritirarsi da tutte le sacche di territori siriani che occupa da anni? Non lascerebbe così libertà di azione a quei movimenti curdi che ritiene legati ai “terroristi” del Pkk? Molti dubitano, nella certezza però che Ankara abbia bisogno di liberarsi al più presto dei profughi siriani, che stanno destabilizzando la Turchia.
Meglio, dal punto di vista di Erdogan, che destabilizzino il regime siriano, che dovrebbe riassorbire in questo scenario 3,5 milioni di profughi. Un’impresa impossibile, se si considera che nonostante le persecuzioni che ormai patiscono quotidianamente in Turchia, la stragrande maggioranza dei siriani non vuole rientrare in patria, terrorizzata dal regime.
Ecco allora l’impressione di molti altri osservatori: Assad si sta rifugiando sotto le ampie vesti iraniane, i pasdaran, che recentemente hanno eliminato la sua consigliera drusa, fedelissima dei russi, uccisa misteriosamente giorni fa in un inspiegabile incidente stradale.
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È in questo contesto che si inserisce la rischiosa iniziativa diplomatica italiana di riaprire la nostra ambasciata a Damasco, affidandola all’ambasciatore Stefano Ravagnan, a lungo accreditato presso le opposizioni siriane basate a Ginevra. Il passo è rischioso perché il regime non è mai stato più instabile, i suoi stessi partner arabi dimostrano un crescente fastidio per la sua indisponibilità a fare un passo indietro, aprire alle forze di opposizione, creare le condizioni per una nuova fase politica.
Era questo il momento giusto per il passo italiano che di fatto indebolisce il blocco europeo? Può dare l’impressione di offrire una sponda ad Assad e di concedergli quella boccata d’ossigeno che da un decennio aspettano i suoi sudditi disperati? In Siria la valuta locale non ha più valore, l’unica produzione redditizia è la droga, il captagon, prodotto dal reggimento speciale guidato dal fratello di Bashar al Assad, Maher.
Certo, non è detto che la missione affidata all’ambasciatore Ravagnan vada in questa direzione, è lecito anche immaginare lo scenario opposto; ma i rischi del passo sono evidenti e l’intrattabilità dell’interlocutore siriano ben nota.