Lo storico britannico Robert Gildea ha recentemente pubblicato L’Esprit impérial: Passé colonial et politiques du présent (Passés Composés, 2020), volume in cui mostra come la memoria dell’impero rimanga concretamente presente oggi nella coscienza pubblica di Francia e Gran Bretagna. Non c’è dubbio, scrive Gildea, che «la sfida per i due paesi sia quella di confrontarsi con il loro passato coloniale». Tuttavia, anche altri paesi, come la Russia di Vladimir Putin o la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, trarrebbero beneficio da un tale confronto critico. L’atteggiamento attuale di questi paesi, infatti, non si comprende senza tenere conto delle conseguenze ancora operanti della caduta dell’impero sovietico e dell’impero ottomano.
La «sindrome di Sèvres»
Cent’anni dopo la sua firma, il Trattato di Sèvres tormenta ancora i turchi. Resta per essi il simbolo della liquidazione dell’impero e dell’ingerenza continua di avversi poteri esterni. La «sindrome di Sèvres» continua anche perché la memoria è stata coltivata ad arte dalle generazioni politiche successive in modo da perpetuare una vera ossessione per la sicurezza. Erdoğan prepara la celebrazione del centenario della nascita della Repubblica turca (2023) giocando chiaramente la carta del neo-ottomanesimo.
Torniamo al Trattato di Sèvres (10 agosto 1920), che sancì il respingimento degli ottomani fuori dall’Europa e – a giudizio di molto storici turchi – vendicò, diversi secoli dopo, la presa di Costantinopoli. Il Trattato poneva le province arabe sotto il governo fiduciario britannico (Palestina, Transgiordania, Iraq) e francese (Libano e Siria). Il restante territorio veniva diviso in zone di influenza tra Francia, Italia e Grecia. Veniva affermato il principio del rispetto delle minoranze, con la protezione assicurata ai cristiani in Turchia, l’annessione di parte dell’Anatolia alla giovanissima Repubblica di Armenia e l’autonomia concessa ai curdi nel Sud-Est del Paese. Inoltre, la libertà di transito era sorvegliata sugli stretti (Bosforo e Dardanelli) da una commissione internazionale. La Turchia doveva consegnare la sua flotta e ridurre il suo esercito. Le finanze e l’amministrazione turche passavano sotto il controllo anglo-franco-italiano.
Il Trattato di Sèvres, non ratificato, non fu di fatto applicato per la forza del movimento nazionalista turco. La severità delle clausole consentì a Mustafa Kemal Atatürk di raccogliere il consenso di buona parte della popolazione turca e dei notabili curdi. Dal maggio 1919 al luglio 1923, i nazionalisti turchi combatterono sia contro il sultano (Mehmet VI), che aveva tradito l’impero, sia contro la Repubblica di Armenia sia contro gli eserciti europei occupanti. Se i francesi e gli italiani si ritirarono abbastanza rapidamente, la riconquista contro le forze greche si concluse nel settembre 1922 con la presa di Smirne. Atatürk impose poi agli ex vincitori una risoluzione più favorevole alla Turchia, il Trattato di Losanna (24 luglio 1923), nella quale alla Repubblica di Turchia veniva concessa la piena sovranità e garantita l’unità territoriale.
Una politica neo-ottomana
Questo richiamo storico aiuta a comprendere le origini della cultura strategica turca, così come le ambizioni di Erdoğan. Primo ministro (2003-2014), poi presidente (dal 2014), ha intrapreso una politica neo-ottomana volta a stabilire una sfera di influenza, a ridurre la dipendenza energetica e ad affermare l’autorità di Ankara sull’islam politico. Dal tentativo di colpo di stato dell’estate del 2016, il rafforzamento del suo potere personale ha concesso a Erdoğan di procedere a epurazioni nell’amministrazione statale.
All’esterno, la Turchia manifesta attivismo su più fronti, veicolando sempre la visione dell’islamismo dei Fratelli musulmani. Ha dispiegato le sue forze di terra in Libia, Iraq e Siria e le sue forze navali nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali di Cipro. Inoltre, sta esercitando una crescente influenza nel Corno d’Africa, in particolare in Somalia, nel Caucaso e in Europa attraverso i suoi cittadini che formano una rete di comunità organizzate e controllate. L’audacia strategica di Erdoğan ricorda da vicino quella di Putin, ma appare al contempo una politica avventurosa tenuto conto della fragilità economica del paese.
Incarnazione dell’imperialismo britannico, Winston Churchill spiegò ai laureati di Harvard, nel 1943, che gli imperi del futuro sarebbero stati «gli imperi della mente» («Empires of the Mind»). Non intendeva, però, che essi avrebbero rinunciato ai loro mezzi militari.
- Études, novembre 2020