Le Chiese e il futuro dell’Unione Europea

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Nell’Europa secolarizzata le strutture politiche comunitarie hanno bisogno delle Chiese. E viceversa. Nella società plurale non è data a nessuno l’egemonia per condurre i giochi. E tuttavia, se le Chiese superano gli atteggiamenti nostalgici e le istituzioni i pregiudizi laicisti, la collaborazione e la critica reciproca può fecondare il futuro del continente. Fra religione civile ed escatologia la coscienza credente può resistere alla riduzione del cittadino a consumatore e del pensante al narciso. Pubblichiamo la relazione di mons. Mariano Crociata, presidente della COMECE, al simposio della Fundación Pablo VI (Madrid, 23 aprile; “Verso una cittadinanza europea partecipativa”) che portava il titolo: Le Chiese cristiane nell’integrazione europea: risposta alla secolarizzazione?

Partirei dalla considerazione dell’integrazione europea, una formula che esprime l’idea di qualcosa in corso di realizzazione e accettando di esercitarla in maniera condivisa – dovevano superare le divisioni prodotte dalla guerra e creare le condizioni perché i conflitti non tornassero. Che tale essa sia lo dicono insieme gli inizi storici e la realtà odierna dell’Unione Europea.

Il modo come l’Unione è nata spiega molto bene che essa non è stata pensata e avviata come qualcosa di definito e che la necessità di un processo di crescita e di sviluppo era parte dello stesso progetto. Essa non riproduce modelli di organizzazione internazionale già esistenti. È una creazione nuova che ha la forma di una comunità di Paesi che, attraverso la collaborazione in alcuni settori – cioè cedendo la sovranità su alcuni ambiti specifici, all’inizio solo di carattere economico, e accettando di esercitarla in maniera condivisa – dovevano superare le divisioni prodotte dalla guerra e creare le condizioni perché i conflitti non tornassero più sul suolo europeo.

UE modello originale e in fieri

A distanza di settant’anni dobbiamo dire che la collaborazione è cresciuta, anche enormemente, ma l’integrazione è lontana dall’essere compiuta, anche in ambiti sui quali i vari Paesi hanno scelto di collaborare o ancora di più su scelte nuove che la realtà, avanzando, impone.

La successione delle generazioni e il mutamento dei contesti sociali, economici e culturali costringono a una verifica continua di ciò che è stato realizzato e che ha bisogno di essere scelto sempre di nuovo. La situazione contemporanea è frutto di tale evoluzione.

Abbiamo visto estendersi le collaborazioni e le materie di cui l’Unione è chiamata a occuparsi ma, nello stesso tempo, specie negli ultimi anni, è aumentata anche l’indifferenza e spesso perfino l’avversione, non senza ragioni, di ampie fasce dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni europee.

L’Unione Europea viene così a trovarsi come tra due fuochi: da un lato, le resistenze, anche politicamente rappresentate, al progetto europeo, e, dall’altro, l’esigenza di incrementare la compattezza della sua configurazione istituzionale, senza la quale essa non è in grado di assumersi e di adempiere adeguatamente le responsabilità che il momento storico richiederebbe.

Il rischio della regressione

In una fase pre-elettorale come l’attuale si rischia di dimenticare, insieme a tanti limiti e criticità, ciò che l’Unione Europea ha rappresentato e compiuto fino ad ora, come – per fare degli esempi – la moneta unica, la libera circolazione delle persone e delle merci con l’abbattimento delle frontiere interne, gli interventi in occasione di crisi economiche e della pandemia. Essa si è allargata a sempre nuovi Paesi, fino al gruppo di dieci di essi, quasi tutti dell’Est europeo, che sono entrati a farne parte esattamente vent’anni fa.

Proprio in questi giorni, due relazioni richieste a Mario Draghi e a Enrico Letta, rispettivamente dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo, mettono in evidenza il rischio di regressione e di disarticolazione dell’Unione Europea, soprattutto nell’attuale contesto internazionale segnato da conflitti sanguinosi, fattori oltretutto di pericolose minacce per tutti, se non si mette mano ad alcune riforme, come una difesa comune, un fisco e un mercato più aperti e potenziati tra i Paesi europei, soprattutto una politica estera che abbia la forza che viene soltanto dall’unità politica che essa dovrebbe interpretare e rappresentare.

La verità è che la congiuntura culturale con cui questo processo storico si incrocia ha le caratteristiche di fatto più avverse che si possano immaginare, dal momento che tutto – dalla cultura dei diritti individuali senza doveri, al consumo (quasi una nuova religione) di beni come di persone, alla onni-pervasività dei  social – sembra concorrere a disincentivare qualsiasi processo di integrazione, nella dinamica sociale prima che in quella politica, sul piano locale come su quello globale nel quale le guerre in corso hanno un peso enorme.

Ora, ciò di cui si nutre ogni processo di integrazione è un tessuto sociale, culturale, valoriale comune apprezzato e coltivato. Ma proprio questo è ciò che sembra sempre di più mancare: propriamente detto, manca un ethos condiviso.

Lo mostra ad evidenza il fatto che siamo ben lontani dal cogliere i segni di un’opinione pubblica europea e di una cittadinanza europea; le opinioni pubbliche sono, per così dire, sequestrate dalle questioni politiche intra-nazionali e in quell’ottica leggono le vicende europee, quando pure siano conosciute e seguite.

La secolarizzazione

I cristiani sono stati fin dall’inizio partecipi, anzi protagonisti, dell’avventura europea, se solo richiamiamo le figure dei fondatori. Ma ciò che, all’epoca, sussisteva come un tessuto morale e culturale condiviso ancora rilevante – ovvero un solidarismo avvertito e comunque fortemente radicato, in cui il senso cristiano della vita svolgeva un ruolo determinante – è diventato nel tempo un ricordo sempre più sbiadito.

Il cambiamento, davvero impressionante, soprattutto a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso, può avere nella cosiddetta secolarizzazione una cifra interpretativa adeguata, seppure riferibile soprattutto all’aspetto religioso del sentire e del vissuto collettivo.

Uso con circospezione la categoria di “secolarizzazione”, perché troppo complessa, anzi intricata, è la vicenda culturale e religiosa dentro cui ancora siamo e che essa intende interpretare.

Di certo c’è che il rapporto tra la società e la religione è profondamente mutato da alcuni decenni a questa parte, e questo per lo più nel senso dell’allontanamento e della distanza reciproca. A interpretare tale mutamento si sono impegnate varie proposte teoriche. Le stesse categorie via via introdotte sono rivelatrici di una difficoltà ermeneutica; si distingue, infatti, tra secolare e post-secolare, ma anche tra moderno e post-moderno e, infine, tra cristiano e post-cristiano, come pure post-religioso.

Troviamo in questo il segno di una frammentazione, o – come direbbe Zygmunt Bauman – di una “fluidità”, dentro cui è difficile trovare punti fermi a cui ancorarsi anche solo per capire.

Tra altre, tre linee interpretative della secolarizzazione possono aiutare a orientarsi in questo universo in incessante movimento. Sullo sfondo sta una storia che ha conosciuto una lenta uscita dalla cristianità medievale, passando attraverso la rottura della Riforma e la “nazionalizzazione” delle confessioni cristiane, per giungere a una separazione della politica dalla religione e al passaggio dei beni ecclesiastici allo Stato, così segnalando un primo senso di secolarizzazione.

Luhmann, Taylor, Gauchet

La teoria di Niklas Luhmann rileva tale separazione dalla religione non solo della politica, ma anche di tutte le altre attività umane, quali l’economia, la giustizia, la scienza. La religione non ha più alcuna influenza sugli altri settori, ognuno dei quali agisce in piena autonomia, in qualche modo trovando in sé stesso la propria ragion d’essere e i criteri di valutazione e di azione.

A sua volta, Charles Taylor osserva, tra altro, il cambiamento radicale intervenuto con il passaggio da un mondo in cui la religione, e quindi l’avere una fede, era un’evidenza data per scontata da tutti, così che era naturale credere, a un mondo in cui è naturale non credere, in cui il fatto ovvio, non pensato, è il non avere una fede, il non avere una religione, o averne una solo per effetto di una scelta che si presenta come una tra altre possibili.

Non manca poi chi, come Marcel Gauchet e altri con lui, considera la secolarizzazione l’estrema conseguenza e il frutto maturo delle religioni, particolarmente del cristianesimo.

Al di là di questa maniera necessariamente sommaria di trattare teorie e autori dal pensiero molto articolato, ciò che va considerato acquisito, e non da ora, è che la secolarizzazione, comunque interpretata, non significa la fine della religione, ma il suo profondo cambiamento nel contesto di un mondo a sua volta profondamente mutato.

Questo, nelle nostre società occidentali, significa che il cristianesimo è diventato e diventerà sempre di più una religione di minoranza e di scelta. In esse conta non quanto le istituzioni religiose propongono ma quanto il singolo soggetto fa suo di una determinata religione o, sincretisticamente, sceglie tra varie religioni. In questo modo, però, si apre uno spazio impensato per una scelta consapevole, responsabile, matura.

Ciò che va notato è che questa attitudine individualistica ed elettiva, ma talora semplicemente arbitraria, di approccio alla religione si insinua nella pratica tradizionale di tanti e nel loro modo più o meno consapevole di continuare a praticare la religione di appartenenza del proprio ambiente di vita.

Scelta personale, distanza dall’istituzione

Individualizzazione della scelta e delegittimazione dell’istituzione sono aspetti comunque operanti nell’appartenenza religiosa, e anche ecclesiale, odierna. Si produce così una situazione profondamente differenziata. È possibile incontrare praticanti la cui visione delle cose è perfettamente omologata all’immagine che dei contenuti religiosi danno il mondo del consumo e quello della comunicazione pubblica, senza alcun senso critico e senza alcun desiderio di modificare le proprie abitudini, sensibilità, preferenze, magari in risposta ad una richiesta di presa di coscienza e di formazione da parte dei pastori della Chiesa.

E, d’altra parte, molte persone, che dalla religione istituzionale hanno preso le distanze, portano dentro un’inquietudine e una ricerca spirituale che coltivano e trovano sbocchi, quando li trovano, anche disparati.

A ciò si deve aggiungere che la contemporaneità ha un carattere cronologicamente fittizio, poiché in essa convivono, senza rendersene conto, visioni e pratiche della religione di epoche diverse. Alcuni vanno in chiesa come se vivessero cinquanta o cento anni fa. E non parliamo di tradizionalisti e nostalgici, che sono un mondo a parte.

Del resto, la stessa religione istituzionale perpetua un modello organizzativo e culturale che, pur volendo trasmettere il vangelo di Cristo, il senso cristiano della fede e della vita, i mezzi rituali e sacramentali della Chiesa e così via, non sempre riesce a raggiungere la gente di oggi, non quella che sta dentro né quella che sta fuori, perché fatica a intercettare la ricerca religiosa fuori dagli schemi costituiti ereditati e, per lo più, non penetra nemmeno un poco il “muro di gomma” di tanti praticanti abituali o di “fedeli” alle espressioni della pietà popolare.

Opposizione velleitaria

Come si collocano le Chiese cristiane in tale contesto? Combattere contro una secolarizzazione imperante sarebbe velleitario. Il mutamento culturale intervenuto è irreversibile e presenta tutti i caratteri di un fenomeno che è il risultato di un processo molto complesso nel quale le Chiese sono attori in gioco ma non gli unici né probabilmente i principali.

Sarebbe utile, in ogni caso, rileggere la parabola dell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della modernità per rendersi conto che tutti i tentativi di prendere in mano e di governare il processo di uscita dalla religione e dal cristianesimo, per usare un’espressione di Marcel Gauchet e di Émile Poulat, sono falliti. Non a caso uno storico italiano – Pietro Scoppola – parlava anni fa della «nuova cristianità perduta».

Il concilio Vaticano II ha scritto la parola fine su questo “accanimento”, accettando ciò che si era inesorabilmente consumato e aprendo a un dialogo e soprattutto a uno sguardo positivo su questo mondo contemporaneo. Cosa non facile a motivo dell’accelerazione con cui la tecnica procede a tutti i livelli nell’acquisizione di nuove non immaginate potenzialità, di cui l’Intelligenza Artificiale è l’ultimo risultato e l’emblema più eloquente.

Oltretutto, la connotazione della società in senso sempre più marcatamente plurale dal punto di vista religioso toglie a chiunque ogni residua illusione in ordine alla pretesa di poter condurre i giochi, cosa che eventualmente si decide per tutti i livelli della vita sociale in ben altre sedi, nel confronto tra grandi concentrazioni finanziarie (sempre più legate agli sviluppi tecnico-scientifici, che danno forma a tecnocrazie) e potenze geopolitiche regionali.

Europa versus populismo e nazionalismo

A questo proposito, si constata una curiosa analogia e simultaneità tra la debolezza dell’Unione Europea e quella delle Chiese cristiane, seppure su piani diversi. Questo, anche se non solo, dovrebbe aiutare a capire che le due entità hanno bisogno di riconoscere e scegliere di aiutarsi a vicenda con maggior calore di quanto avvenuto finora. Dovrebbe finire da entrambe le parti il tempo dei sospetti e delle diffidenze.

Se c’è un ritardo delle Chiese nel dismettere atteggiamenti nostalgici, contrapposizioni e abitudini mentali di altri tempi, c’è non meno un’arretratezza culturale dovunque si continui a trattare le Chiese cristiane come un pericolo per la libertà, residuo di paure e di fantasmi di stagioni storiche del passato.

È necessario piuttosto concentrarsi su ciò che è più essenziale e più urgente.

Senza la crescita del senso di cittadinanza europea e del senso di appartenenza, l’Unione Europea rischia di non avere più margini per giocare la partita fino in fondo. Abbracciare questo progetto di largo respiro europeo di partecipazione popolare è l’unico modo per togliere terreno alle pulsioni nazionalistiche e sovraniste che minano i minimi progressi dell’Unione, senza alcun vantaggio se non la conservazione, per qualcuno e solo per qualche tempo, di un potere locale barattato con una falsa sicurezza di fronte allo spauracchio del pericolo che proprio l’isolamento rende più reale e incombente.

Da parte delle Chiese cristiane si tratta di capire che, anche se distinti, il compito storico e istituzionale nei confronti di questo momento europeo non è separabile dal compito pastorale e dalla missione spirituale. Ciò che le istituzioni ecclesiali preposte operano nel dialogo con le istituzioni civili, la responsabilità pastorale lo deve richiedere a comunità piccole e grandi il cui compito storico e spirituale è dare forma sociale a quei principi dell’insegnamento sociale della Chiesa, a cominciare dalla dignità intangibile della persona, che formano lo strumento ermeneutico e operazionale del rapporto della Chiesa con la società tutta.

Dialogo e azione pastorale

Organismi come la Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE), sul versante cattolico, e la Conferenza delle Chiese Europee (CEC), sul versante protestante e ortodosso, sono l’espressione di Chiese istituzionalmente incaricate di intraprendere e di mantenere un dialogo che figura tra gli impegni propri delle istituzioni dell’Unione Europea in quanto sancito nell’articolo 17 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, il quale peraltro si alimenta di una stabile collaborazione dei due organismi tra loro e, nel caso della COMECE, poggia su un legame costante con la Santa Sede.

Proprio in quanto espressione degli Episcopati nazionali e delle Chiese locali, ciò che questi organismi compiono in sede di dialogo istituzionale rappresenta la proiezione formale di un sentire e di un vissuto che costituiscono l’impegno costante delle comunità ecclesiali ad ogni livello.

I due aspetti – il dialogo istituzionale e l’azione espressamente pastorale e spirituale – sono non solo tra loro strettamente legati ma concorrono al medesimo obiettivo, essendo entrambe manifestazioni di un modo di pensare e di vivere che si compie all’interno di una società di cui anche i cristiani sono parte e di una società civile che anch’essi concorrono a formare e a edificare secondo lo stile che è loro proprio e che corrisponde all’ispirazione originaria e alla struttura di fondo, nonché ai valori, da cui origina l’Unione Europea. Ciò costituisce anche un’esplicita precisa responsabilità dei cristiani.

In questo modo veniamo a toccare un nervo scoperto, per così dire, di tutta la questione ecclesiale. Infatti, c’è un livello intermedio tra il dialogo delle Chiese con le istituzioni europee e la vita delle comunità ecclesiali, che precisamente consiste nel dialogo tra le Chiese dei e nei vari Paesi.

Si tratta di dialogo, poiché l’intreccio che sussiste tra comunità ecclesiale e comunità civile fa della comunità ecclesiale un’inevitabile cassa di risonanza degli umori della società civile. Così, veniamo a constatare come il fenomeno variamente denominato nazionalismo, sovranismo, populismo, presenti risonanze ecclesiali non trascurabili.

I sovranisti accelerano la secolarizzazione

Su questo è utile avere presente l’interpretazione che Olivier Roy dà del fenomeno. Del quale è caratteristico l’avvalersi di simboli e di riferimenti religiosi al di fuori di ogni contesto propriamente ecclesiale con evidente scopo strumentale di tipo politico, ma con l’effetto di una sostanziale ulteriore secolarizzazione della religione, poiché l’orizzonte valoriale ed etico in cui viene ad essere collocata l’utilizzazione dei simboli religiosi è di tipo rigorosamente individualistico e consumistico (a questo proposito Danièle Hervieu-Léger parlerebbe di “esculturazione”). È da considerare perciò semplicemente un’illusione e un inganno la difesa di simboli religiosi sbandierata in contesto e a scopo politico sovranistico.

Questo, purtroppo, non sempre viene compreso da molti credenti alla ricerca spasmodica di sicurezze rispetto ad un mondo contemporaneo avvertito come minaccia, da cui si pensa di potersi difendere rifugiandosi in un mondo passato immaginario e, come tale, privo di alcun serio impegno religioso.

La sfida rappresentata dall’incremento dell’integrazione europea è tale anche per le Chiese cristiane, per quanto la loro missione non si riduca ad essa ma vada ben oltre, dal momento che il suo obiettivo proprio non è la forma di un’organizzazione socio-politico ma l’avvento del Regno di Dio, e qualsiasi forma di organizzazione sociale è il luogo, contingente e imprescindibile insieme, attraverso cui quell’obiettivo trova adempimento qui e ora.

Un ultimo punto chiede di essere qui evocato, proprio a questo riguardo, per dare completezza al corso dei pensieri che il tema attiva.

Esso chiede di riprendere un dibattito che ha avuto luogo qualche anno fa e, precisamente, inerente la riduzione della fede cristiana a religione civile, cioè alla sua funzione intramondana legata a circostanze storiche contingenti e a finalità sociali, culturali e politiche.

Quel dibattito non ha perduto di attualità, poiché vale non meno ancora oggi che il ridimensionamento della pratica religiosa per le Chiese cristiane si accompagna alla persistenza nella società e nella cultura di tutta una serie di valori che hanno origine e forma cristiana. Del resto, non si può negare che molti dei valori enunciati nei Trattati dell’UE e nella Carta dei diritti dell’UE ha formulazione e contenuti largamente corrispondenti alla tradizione cristiana.

Fra religione civile ed escatologia

Il termine di confronto e di contrasto è la finalità rigorosamente escatologica che viene riconosciuta all’annuncio cristiano soprattutto nella sua originaria configurazione gesuana. Inutile osservare che ciò ritorna particolarmente allettante in un tempo in cui l’immagine della minoranza creativa viene evocata con insistenza a fronte di un calo quantitativo (soltanto?) rilevabile come dato costante nelle Chiese d’Occidente.

Seppure il cristianesimo non è più dominante nelle nostre società, a motivo della presenza crescente di altre religioni, nondimeno non si può negare che il patrimonio cristiano conserva ancora una consistenza complessiva tutt’altro che accessoria.

Nella contrapposizione tra religione civile ed escatologia, la tradizione cristiana ha conosciuto sempre un punto di equilibrio che è consistito nel rifiuto sistematico di ogni forma di settarismo.

Ci sono, del resto, argomenti biblici tutt’altro che secondari per sostenere che l’azione di Gesù compone insieme la cura del gruppo ristretto dei dodici, l’accompagnamento dei discepoli e l’accoglienza della folla, della massa di persone che lo cercano per motivi umanissimi e disparati non rinunciando a dare a tutti un indirizzo, un apprezzamento e un incoraggiamento.

Il cristianesimo non è mai venuto meno a questa apertura sociale della fede, al suo essere per tutti e alla sua volontà di non escludere nessuno, senza per questo rinunciare alla serietà e al rigore di una risposta piena alla chiamata alla fede, coerente con la sua connotazione escatologica.

Le Chiese cristiane non ci sono per sopperire – ammesso che abbiano il potere di farlo – alla carenza di ethos condiviso di cui soffrono le società europee, ma, se possono dare il loro contributo, non è loro consentito di rifiutarsi o di rimanere indifferenti. Esse possiedono riserve di senso, risorse spirituali e morali a cui tutti devono poter attingere.

Se un segnale le Chiese cristiane devono dare, esso consiste nella loro capacità di formare e di animare le coscienze dei propri fedeli, fino a condurle ad una considerazione delle scelte storiche da compiere in coerenza con le motivazioni religiose e di fede, e a costituire comunità vive, segno e fermento di una nuova socialità.

Il loro prevedibile carattere di minoranza non avrebbe, in tal senso, particolare incidenza, poiché, in un contesto sociale sempre più labile dal punto di vista ideale e valoriale, la forza di convinzione sarebbe destinata ad avere un’efficacia comunque significativa.

Il problema reale starebbe, piuttosto, nella capacità delle Chiese cristiane di contrastare gli effetti di indebolimento ideale e valoriale che la cultura corrente dominante – questa sì! – produce non solo all’esterno ma anche al loro interno e tra i loro fedeli.

Credo che tutto questo abbia a che fare, e non poco, anche con la presenza e la responsabilità dei cristiani, e delle Chiese cristiane, nel processo di integrazione europea.

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